A palazzo Fortuny una mostra di Eva Jospin

L’esposizione nel palazzo veneziano è a cura di Chiara Squarcina e Pier Paolo Pancotto con la collaborazione della Galleria Continua, visitabile fino al 24 novembre. “Selva” si compone di strutture ad arco che compongono l’installazione in carta, cartone e materiali poveri rendono il senso di una mutazione in corso non più contenibile

Palazzo Fortuny, nonostante il restauro che ha non poco intaccato il suo fascino, congelando in parte quello che era un assemblaggio di memorie vive e pulsanti, sia artistiche che esistenziali, resta uno dei luoghi in cui il passaggio per gli artisti contemporanei è un fatto obbligatorio. Qui è infatti possibile misurarsi e godere di un originalissimo milieu fatto di inventiva e creatività che presenta potenziali e infiniti allacci con i temi più rilevanti dei nostri giorni. Un po’ Philippe Starck e un po’ Tesla (nel senso di Nikola non di Elon), Mariano Fortuny offre così nel suo palazzo e nelle sue collezioni il campo adatto a un’artista come Eva Jospin che attorno al tema del selvatico – a lei da sempre caro – ha sviluppato un allestimento nel portego, denominato Selva. Una piccola e intensa esposizione a cura di Chiara Squarcina e Pier Paolo Pancotto con la collaborazione della Galleria Continua, visitabile fino al 24 novembre. Le strutture ad arco che compongono l’installazione in carta, cartone e materiali poveri rendono il senso di una mutazione in corso non più contenibile. Non uno slittamento ambientale, non una tragica crisi, ma un movimento in permanenza, seppure quasi impercettibile. Ci si può dire o credere solo in parte responsabili di questo cambiamento, ma è evidente che in quanto viventi in scena se ne è totalmente coinvolti.

Parti non riducibili di un contesto che credevamo di espellere e che con molta probabilità sta invece espellendo noi. L’incrocio tra il palazzo e le strutture fragili eppure dominanti di Jospin danno corpo a un dialogo che volge sopra le nostre teste e di cui è possibile percepire solo la lenta e inesorabile ricaduta. Jospin seziona le sue forme: il cartone di cui sono fatte non solo è funzionale alla rappresentazione, ma è l’elemento base in forma altra dell’origine di ciò che viene rappresentato: dalle selve alle foreste. Una vita non più imprigionabile che Jospin mostra in tagli di sezione. Entrare nelle fibre di quella celluloide vuol dire entrare a stretto contatto con ciò che fu vita capovolgendo così il senso ultimo della rappresentazione: non più noi che assistiamo alla presenza di una foresta rappresentata, ma la foresta che osserva noi quale assenza futura.

Un’inquietudine che si mischia allo stupore di come tanta essenzialità di gesto e di materiali possano produrre significati così ravvicinati e perfettamente accolti dalla fluidità veneziana. Così come in Fortuny il gesto di stile si fa invenzione, così il margine in Jospin si fa centralità. Un gusto raffinato che se in parte allontana il terrore con la meraviglia non lo nega però mai, offrendo una sorta di ultimo grande spettacolo. Quasi una citazione del tragico e trionfale Fitzcarraldo di Werner Herzog. Uno stato di trance che si smagnetizza a contatto con la vivacità luminosa che attraversa le calli di Venezia in febbre da Biennale, ma basta guardare il selvatico ai lati dei muri e selciato per cogliere l’esile permanenza su cui balliamo inconsciamente. Per non dire che a Venezia proprio le diritte vie tendono a portare per selve oscure.

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