Tra odio e spocchia nazionalista, la lunga strada verso gli Europei di calcio

Inizia Euro 2024, diciassettesima edizione di una competizione che avrebbe potuto avere una storia molto più lunga

Oggi alle 21, all’Allianz Arena di Monaco di Baviera, verrà dato il calcio d’inizio della diciassettesima edizione dei Campionati europei di calcio. Sono passati poco meno di sessantaquattro anni dalla prima edizione, sessantasei da quando presero il via le partite di qualificazione.

Sarebbe potuta essere ben più lunga la storia di questa competizione, avere diverse edizioni in più, pareggiare almeno quelle della Coppa del mondo. Il Mondiale era stato disputato per la prima volta nel 1930, in Uruguay, e fin laggiù ci si arrivava solo dopo settimane di nave. Eppure riuscì ugualmente a organizzarlo e i padroni di casa finirono con l’alzare la Coppa Rimet al cielo di Montevideo.

Il trofeo prendeva il nome da Jules Rimet, uomo che scoprì il calcio agli inizi degli anni Novanta dell’Ottocento, fondò una decina di squadre a Parigi, un giornale di idee cristiane, repubblicane e democratiche, la Revue, divenne il capo della Federazione francese e infine il terzo presidente della Fifa.

Jules Rimet si definiva un’ottimista, uno di quelli incapaci di scorgere ostacoli insormontabili sulla strada verso i propri obiettivi. E nel 1920, quando era ancora alla guida della Federazione calcistica francese, radunò a Basilea tutti i presidenti delle altre federazioni nazionali per discutere con loro “la necessità di creare una competizione che sia messaggera di pace e prosperità per il continente”. Si definiva un umanista, Rimet, ed era convinto che il calcio potesse essere uno sport capace di unire i popoli in un popolo solo, quello calcistico. Un po’ ingenuo monsieur Rimet.

I presidenti federali e i membri delle delegazioni nazionali parlarono per un intero fine settimana. Litigarono su ogni cosa. Francesi contro tedeschi, austriaci contro italiani, spagnoli contro belgi. I britannici neppure si erano presentati: quello sport lo avevano inventato loro e non esisteva squadra che potesse competere con la Nazionale inglese.

Finì con un nulla di fatto, con i paesi più o meno mitteleuropei – Austria, Cecoslovacchia, Italia, Svizzera e Ungheria – che si organizzarono la loro coppa internazionale, la Svehla Pokal. Finì con Jules Rimet che riuscì prima a diventare presidente della Fifa e poi a organizzare la Coppa del mondo. E con l’Europa del calcio che dovette aspettare altri quarant’anni per avere una sua competizione, per poter eleggere la squadra più forte del continente.

Finì che le parole di Jules Rimet si trasformarono in triste e nefasta verità: “In tutti i paesi del continente la spocchia abbonda in ogni misero potere e ogni uomo che abbia anche solo un briciolo di potere di questa è dotato enormemente. Sono sopravvissuti a una guerra atroce e non capiscono che solo l’unione può evitarne un’altra. Un’unione calcistica per iniziare, in modo che ci sia almeno il calcio a legare questi animi distanti. E poi chissà, possa unire tutto il resto”.

A oltre cent’anni dalla lettera di Jules Rimet all’amico, e poi successore alla guida della federcalcio francese, Henri Jevain, l’Europa qualche passo avanti l’ha fatto. Passi lenti, a volte macchinosi. Spesso ha cercato di ritornare pure sui passi già fatti – fortunatamente senza riuscirci. L’Unione europea regge e tra un litigio, un allarme insulso e accuse infondate di ladrocinio di identità e sovranità nazionali, è riuscita a garantire ciò che sino ad allora nessuno era riuscito a garantire: la pace fra i paesi e la programmazione a cadenza di quattro anni dei campionati europei di calcio. Senza temere più né gli stati né i giocatori. E non è poco.

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