Altro che lotta di classe, il popolo di Le Pen se ne frega dell’economia

It’s not the economy, stupid! Ecco, “non è l’economia, stupido!” il propellente dei populismi antiestablishment, antisistema, antiélite. Il sospetto circola. Forse bisogna rovesciare il vecchio motto sulle elezioni che si vincono con il portafoglio (è l’economia, stupido!), parafrasi del celebre “è la stampa, bellezza, e non puoi farci niente”, che girava ai tempi di Bill Clinton e dei fasti della globalizzazione tecnologica dei mercati. Il business e i sistemi politici strutturati sono sensibili, sensibilissimi, al gioco della finanza privata e pubblica, e delle sue ricadute su lavoro industria investimenti e fisco, certo: la premier britannica Liz Truss è durata solo 40 giorni a Downing Street perché i mercati e la Bank of England, contrari al suo piano di laissez faire e di bilancio allegro, l’hanno licenziata praticamente senza preavviso.

 

Ovvio. Ma il popolo, le peuple che ha votato e si appresta a votare con tanta abbondanza per Le Pen e Bardella o per Mélenchon e compagnia frontista, sopra tutto contro Macron, forse della demagogia economica e perfino delle promesse sociali se ne frega, pur apprezzando la buona volontà di progetti di governo in difesa del potere d’acquisto che se realizzati aumenterebbero il deficit francese di 3,9 punti, considerando che è già al 5,5 per cento del prodotto interno lordo. Un terremoto per il big business, e anche per lo small business, e forse un impoverimento generale del paese: ma che importa? Il sovranismo è il sogno del cambiamento, la relativizzazione brutale del senso della democrazia, aria nuova istituzionale, nuova rappresentanza antielitaria nel rapporto tra stato e cittadino.

           

In apparenza in Francia ce la si gioca sul fatto che il frigorifero è difficile da riempire, la benzina è gravata da troppe accise, la pensione a sessant’anni va difesa da ogni modifica, i pedaggi non si pagano più perché le autostrade si nazionalizzano, e altro.

 
E secondo gli istituti di ricerca il costo della demagogia sociale di Bardella, uno Sbardella che ce la può fare (con riferimento al compianto e simpatico Sbardellone di socialità espansa e andreottiana), sarebbe di oltre cento miliardi da mettere a bilancio tra le uscite non coperte. I macronisti giustamente dicono che un governo bardelliano farebbe bancarotta in pochi mesi, e segnalano l’agitazione di spread, tassi di mercato e grandi conglomerate dell’energia già in evidenza dopo il voto per Bruxelles, figuriamoci che accadrà con la conquista di Parigi. Ma ecco che l’ansia di apparire un poco corretti, mainstream, meloniani, induce i lepenisti a smentirsi e a dire che “sulle pensioni da riportare a sessant’anni, vedremo”, ed è da dubitare che questo possa seriamente mettere in discussione l’appeal della collera manifestata alle europee e montante alle politiche, a destra come a sinistra. Vedremo, certo, ma intanto bisogna prendere atto della realtà. Macron dopo sette anni ha dato risultati evidenti per il lavoro, l’industria, gli investimenti, l’innovazione, le imposte e le tasse, ma la percezione è che il declino sia in corso, che bisogna cambiare a tutti i costi, che ci vogliono il pugno duro e una nuova classe dirigente non succube del mercantilismo europeo, nazionale e nazionalista, bisogna dare un colpo ai riformisti che rappresentano i primi della cordata nel segno di un onirico domani che canta la canzone populista. Altro che lotta di classe, il popolo vuole sognare, centrale non è la capacità di sussidio promessa ma la proiezione di un comando sicuro e di un castigo per “gli altri”, quelli d’en haut.

           

Negli Stati Uniti stesso scenario. Votare con il portafoglio? Macché. Joe Biden si lamenta: non apprezzano il fatto che ho creato lavoro a iosa, che ho reindustrializzato settori importanti salvandoli dalla vulnerabilità da globalizzazione, che ho domato l’inflazione e creato i presupposti per una forte crescita e una Borsa fortissima, anche a tutela della protezione sociale, niente, non percepiscono, non mi credono. Dev’essere frustrante la sensazione che il trumpismo sopravvive a sé stesso, ai processi, alle condanne, al profilo gangsteristico del capo tonitruante, e che perfino là dove Biden ha realizzato promesse sociali di Trump, è il fantasma del distruttore di sistema, non del costruttore di politica economica e sociale, che rischia di acchiappare di nuovo tutta la posta. Anche Milei in Argentina, a pensarci bene, ha promesso la motosega in azione nella spesa pubblica, un castigo di Dio per una marea di percettori di reddito e di servizi, eppure la sua grossolana e fantasiosa sfida ultraliberale è prevalsa nelle urne perché chi se ne frega dell’economia, l’importante è emozionarsi, premiare quella particolare corruttela dell’animo che è la specialità dei mass media e dei social, corrispondere a un’immagine. Per l’economia, vedremo, importa di meno.          
 

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