Un rudere in un quartiere degradato. Il corpo cambia, il mondo si rivela

In un’America ossessionata dalla ricerca della salute e paradossalmente convinta dell’Armageddon imminente, una nazione inferocita quanto Trump o contro Trump, Sam vede nell’irregolarità dell’affacciarsi del proprio sangue un’analogia con il destino del mondo. A proposito di Ribelle di Dana Spiotta

Se una donna di cinquantatré anni, con una figlia adolescente e tuttavia serena, un lavoro piacevole e un marito premuroso, sincero e bravo persino quando dorme, nonostante ciò sente “di aver sbagliato tutto”, perché la propria esistenza è inadeguata e i progetti futuri sono “stupidi, superficiali, privi di senso”, come deve o può reagire? E potrà mai giustificarsi o almeno accettarsi, se l’urgenza di far deragliare il matrimonio da binari solidi e certi è soltanto sua, anzi di quella persona che già vive in lei ma non conosce ancora; se la tempesta che porterà caos nell’ordine, non è temuta ma invocata, e non potrà dare la colpa a nessuno, nemmeno alla menopausa incipiente che stravolge il suo corpo? La protagonista di questo romanzo che coglie di sorpresa per quanto spudoratamente vivo – Ribelle di Dana Spiotta (traduzione di Carlo Prosperi, La nave di Teseo) – abita a Syracuse, una delle migliori città americane dove crescere una famiglia; si chiama Sam e un giorno, senza avvertire nessuno, presa da raptus acquista una casa per sé, non una casa più bella, ma un rudere in un quartiere degradato: “dove scontare la propria pena, cambiare sé stessa”.

Sam vivrà conseguenze inaspettate (il marito la sosterrà), altre prevedibili (la figlia la esclude dalla propria esistenza), ma nulla fermerà la ricerca della causa originaria di quell’improvviso colpo di testa, di quella selvatica necessità di prendersi cura soltanto di sé. Sam agisce d’impulso, non si separa dai suoi cari, si separa, così è convinta, dalla casa coniugale: è sì il bisogno di una stanza o casa intera tutta per sé, un luogo in cui non ricorrere a mezze verità o ai tanti facili progetti di auto-affermazione che il mercato mette a sua disposizione – diete chetoniche, bikram yoga, alcol, survivalismo e altri fondamentalismi – ma è soprattutto una scelta simbolicamente antagonista ed ecologista quanto il ritirarsi di Thoreau a Walden. “Lei era nella casa. La casa era nella città. La città era nel mondo. Il mondo era storia. Ecco perché aveva comprato questa casa in questo posto preciso”.

Nei mesi dolorosi e spesso degradanti che si susseguono, la donna procede a testa bassa verso un naufragio volontario: non si accontenta di scuse o compromessi, non incolpa l’apocalisse ambientale o trumpiana (è il 2017), né le notti sempre più sprecate per i sudori che sbocciano dentro di lei; non si arruola tra le altre donne in menopausa anti-tutto, assume ogni peso su di sé perché è l’unico modo per scoprire la verità, ovvero mulla che non sia tutto e diverso da prima; è raro imbattersi in un egoismo più folle e più sano allo stesso tempo.

In un’America ossessionata dalla ricerca della salute e paradossalmente convinta dell’Armageddon imminente, una nazione inferocita quanto Trump o contro Trump, Sam vede nell’impazzimento del suo corpo, nell’irregolarità dell’affacciarsi del proprio sangue un’analogia con il destino del mondo. Sarà il dialogo poi ritrovato ma su piani diversi da prima con le altre figure femminili, madre e figlia, riconoscere l’autonomia e maturità delle loro scelte d’amore, capaci anche di offrire uno spazio accanto a loro a quella donna ribelle e onesta fino al sacrificio, a consentire a Sam una nuova normalità.

Ma non prima di essere andata in fondo a quel viaggio dentro la casa dell’assoluto sentire: “La solitudine, con le sue grottesche emozioni, ingigantite nei sobborghi, qui la costringeva a percepire il dolore – il peso – di ciò che vedeva. (…) Ti svegli perché questi non sono tempi per un sonno pacioso. Scandagli il mondo con lucidità e scopri che il mondo era qui da sempre, in attesa che tu lo vedessi”.

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