Tony Effe torna a ostentare riccanza. La vita del trapper da grande

“Icon”, secondo album da solista dopo la parentesi Dark Polo Gang vale la pena di essere ascoltato. Sia per indagare l’evoluzione artistica del cantante, sia per i featuring presenti e i tormentoni in apertura

C’era una volta la Dark Polo Gang, ricordate? L’alba della trap, i ragazzi della Roma bene che scendono in campo sbandierando emblemi di un’ultima decadenza, fine dell’innocenza: dicono che contano solo i soldi, le pupe, il lusso, le droghe per stonarsi e ogni possibile chiave di ostentazione, per far rosicare gli altri, poveretti. E’ un fumetto, è chiaro, ma all’epoca viene preso sul serio da giornalisti e sociologi e condannato come sintomo della disgregazione e dello scadimento intellettuale, culturale e valoriale della nuova e brutta gioventù. Rampogne saccenti e banali, stupidate. In verità era un gioco e anche una vendetta: nel profluvio di chiacchiere che ridimensionava il portato di una generazione schiava degli smartphone e dai consumi superflui, questi tipi si presentavano con tutto il braggadocio che riuscivano a inventarsi, pronti a dire cose orribili su musiche sgangherate, con in più l’innervosente risultato di diventare piccoli idoli tra i loro pari (per carità, c’erano anche legioni di buoni, pronti a detestarli e a bollarli come vergogna urbana).

Del resto, su al nord, la congrega di Sfera Ebbasta & colleghi non faceva di meglio, al massimo immergendo il tutto in un po’ più di rabbia e di sproloqui sul riscatto, a dispetto di coloro che già li avevano liquidati come perdenti: guardateci con le nostre fuoriserie, i voli privati, le scatole piene di Rolex e invidiateci perché abbiamo tutte le donne che vogliamo (le ragazze ancora non avevano messo le mani su questo suono, per rimettere, almeno un po’, le cose a posto. Al tempo si limitavano a guardare gli sbruffoni come dei mentecatti, tutt’al più esprimendo solidarietà verso le poverette che per accompagnarli si sciroppavano questo tran tran di idiote vanterie). Sembra una storia vecchia, un passato lontano, in fondo anche una messinscena, magari con qualche implicazione in più di quelle che al momento vennero catalogate. E, purtroppo, con al seguito una vagonata di brutta musica e pochi episodi destinati a restare. Tra questi, appunto, ci mettiamo anche “Twins”, l’album d’esordio della Dark Polo Gang, con tutto quel salmodiare sul “777” e con l’avvento dei loro cavallini, che poi sono quelli del logo di Ralph Lauren.


Ovviamente, e anche per fortuna, la storia della Gang è breve e l’epilogo è la separazione tra i suoi membri, presto avviati a produzioni solistiche.

E quello che si incanala in modo più plausibile verso una fase “professionale” del proprio percorso sarà Tony Effe, il riccetto muscoloso che adesso ha 33 anni, all’anagrafe si chiama Nicolò Rapisarda e che in effetti dello spettacolo fa un mestiere fin da quando da bambino recitava nei film di Verdone o nelle serie tv (nel ’99 era il cucciolo di “Tutti per Uno”, Tony appunto, e il nome se lo sarebbe tenuto anche nella musica, mentre la sua F è quella del logo Fendi). Ora è appena uscito “Icon” il suo secondo album e vale la pena di parlarne per diversi motivi. Il primo dei quali è dare un’occhiata a come può essere la vita del trapper da grande, una volta che il fenomeno si è ammosciato e gli altri provano a ritagliarsi soluzioni diverse, mentre Tony invece resta con spavalderia attaccato al modello originale: certo i beat di Drillionaire sono più precisi ed efficaci di quelli sgangherati degli esordi, le produzioni – Sick Luke, Charlie Charles e altri – sono navigate e funzionali, ma nella sostanza Tony Effe continua a fare la sua parte: quella di un dritto, fortunato abbastanza da avere le skill per piacere, e che si gode la sua vita-bambagia, mettendola in musica per il gusto di gettare un po’ di polvere negli occhi ai convenuti. Un prodotto di riccanza. Il bello è che lo fa con un suo stile, interpretando una figura che ha supremi predecessori, tra i quali iscriveremo Fred Buscaglione e Franco Califano, con una palpabile dose di ironia e lasciando che un velo di malinconia ammanti il tutto, perché si sa, anche se sei Scarface, o una sua parodia, gli anni passano, e poco alla volta il rito diventa meno divertente. “Icon”, poi, rispetta la regola – che ci piacerebbe qualcuno contraddicesse – dei featuring, le partecipazioni a iosa, che forse sono anche un banco del mutuo soccorso commerciale, un tenersi su a vicenda, ammesso che ne abbiano bisogno. Per cui ecco la solita compagnia rappante: Ghali e Goelier, Rose Villain e Tedua, Sfera, Simba La Rue e anche Pyrex e Side Baby, due dei tre antichi compagni di Gang.

Infine, ve lo preannunciamo, tanto presto ve ne accorgerete da soli, “Icon” contiene in apertura uno dei più minacciosi tormentoni che possano essere concepiti in vista dell’estate: “Sesso e Samba” (titolo notevole), in cui gorgheggia Gaia, reduce da “Amici”, e Tony ce lo immaginiamo sbracato seminudo, come piace a lui, tatuaggi in vista, sulla poltrona di Charles e Ray Eames che misteriosamente ha messo in copertina (ostentazione? sponsorizzazione?), usando il suo vocione per fare il verso a Pino D’Angiò e pronunciando versi destinati a restare memorabili: “Ah, che follia sudamericana / Andare via / Via prima di farci a pezzi / Non siamo troppo diversi come / Sesso e samba, sesso e samba”. Eppure il pischelletto dark ha ancora un suo certo nonsoché.

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