Quinta e Ottava sinfonia di Bruckner, due opere mondo a Santa Cecilia per il bicentenario

Aimez-vous Bruckner. Nemmeno oggi, c’è da scommetterlo, Françoise Sagan metterebbe il nome dell’austero compositore al posto di Brahms nel titolo del suo romanzo sentimentale (era il 1959). Nemmeno in questo oggi così lontano dall’appropriazione postuma e indebita che di Bruckner fece il nazismo. Nemmeno oggi, forse, nonostante la sua musica sia presente da tempo e con costanza nei programmi concertistici, e tanto più in questo 2024, bicentenario della nascita. L’ascoltatore comune, perdonate l’approssimazione, può ancora trovarlo cupo, prolisso, enfatico. E considerarlo come appare nei ritratti: un anziano parruccone. L’ascoltatore medio riflessivo guarda al magistero compositivo, alle architetture sonore delle sue sinfonie, agli elementi di modernità che spuntano da un impianto di solidissima tradizione – non ci vuole molto a riconoscerli, in evidenza o in embrione. Ma amarlo, per prendere alla lettera quel titolo? Si può amare Bruckner? Sì e no, lo dice anche la natura della sua musica

Nell’arco di dieci giorni l’Accademia nazionale di Santa Cecilia ha dedicato a Bruckner due appuntamenti, particolari perché ognuno aveva in programma una singola opera: l’Ottava sinfonia, con l’Orchestra dell’Accademia diretta da Semyon Bychkov, e la Quinta, con la Mahler Jugendorchester diretta da Kirill Petrenko. Un’ora e 25 l’una, un’ora e 20 l’altra: senza intervallo, ammonivano le note di sala. La lunghezza, la locandina monotematica devono aver intimorito qualche spettatore che si è tenuto alla larga – che noia Bruckner. Ma come non restare invece affascinati da una composizione musicale che punta in qualche modo all’assoluto, che si dilata con l’ambizione di farsi unica ed esclusiva? Sì, una sinfonia di Bruckner si può amare come opera mondo, anche con tutte le sue contraddizioni. Già la fase della scrittura è provata dal conflitto tra il riferimento a una tradizione e a una forma consolidate e l’adesione al nuovo credo wagneriano. Le nove sinfonie di Bruckner sono in larga parte frutto di un ripensamento continuo, di revisioni e riscritture, anche a distanza di tempo. E quando andavano bene a lui, non andavano bene agli altri: agli orchestrali e ai direttori che le ritenevano troppo difficili, al terribile critico viennese e al suo partito No Wagner. Prendete la Quinta: composta tra il 1875 e il ’76, fu rivista e rimaneggiata nei due anni successivi ed eseguita per la prima volta nel 1894 in una versione ulteriormente ritoccata da un suo allievo. Bruckner non se ne accorse nemmeno: le condizioni di salute lo tennero lontano dal teatro, né riuscì mai ad ascoltarla eseguita da un’orchestra nei due anni di vita che gli rimanevano.

In tutto questo affanno compositivo, a volte sembra che prevalga il sommo artigianato musicale, il contrappunto, la fitta rete di relazioni tematiche e ritmiche, anche tra un movimento e l’altro. Le progressioni, le frequenti iterazioni (qualcuno, per questo, ha definito Bruckner il nonno del minimalismo) danno solo momentaneamente un andamento lineare alla musica: anche nella Quinta e nell’Ottava sono frequenti i climax che si interrompono in inattesi ripiegamenti, le variazioni e gli sviluppi che conducono su altri sentieri in una specie di flusso di coscienza che resta però tendenzialmente impersonale. Abissi ed estasi di un’umanità riservata, che quando si lascia andare al canto – e che meraviglia da lacrime agli occhi quegli squarci melodici – subito però si ritira. O, viceversa, se guarda a un assoluto più alto – Bruckner era un cattolico devoto – finisce nell’apoteosi declamatoria degli ottoni. 

Petrenko, che dirigeva per la prima volta la Quinta, scandaglia la partitura affilando e lucidando ogni dettaglio, rendendolo nello stesso tempo vivo e necessario. Una lettura che comporta qualche rischio sulla visione d’insieme: ci si può perdere un poco, come se fosse già sciolta la tensione, come se tutto fosse già stato detto, il momento più lancinante dell’Adagio, quella progressione discendente di settime affidata agli ottoni che sembra un urlo di resa o di rassegnazione. I giovani della Mahler (non si va oltre i 26 anni d’età, il ricambio è continuo) gli hanno risposto con una compattezza esemplare: i fiati solo un po’ acerbi; gli archi, vestiti di seta e velluto, protagonisti di impeccabili pizzicati, cuore battente o passo del destino che accompagna tante parti della sinfonia. Qualche sera prima, Bychkov,  in simbiosi con l’Orchestra di Santa Cecilia in gran forma, aveva diretto l’Ottava: magnifici il suo  Adagio e l’imponente Finale. Nel movimento lento, l’adesione al canto finalmente liberato, il calore del fraseggio, le minime increspature del tempo hanno reso palpabile l’ammaliante bellezza di queste pagine. Decisamente un Bruckner da amare.

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