Montanelli capì meglio di tutti quanto fosse friabile la nostra democrazia

Aragno ripubblica “Il buonuomo Mussolini”, scritto e edito dal giornalista quasi a suo personale uso e consumo, e scomparso dalla circolazione

Confesso che non sapevo nulla o quasi del libro che nel 1947 Indro Montanelli s’era scritto e edito quasi a suo personale uso e consumo, e che portava il titolo montanelliano “Il buonuomo Mussolini”, un libro che scomparve ben presto dalla circolazione e che tale è rimasto finché lo ha di recente ripubblicato l’editore Aragno, sempre molto raffinato nelle sue scelte. Titolo e libro quanto di più montanelliani non si potrebbe, era una sorte di testamento ritrovato fra le carte di Mussolini dato che a fare da personaggio principale e autore del racconto, a metà strada c’è il re Vittorio d’Italia, per l’altra metà un Mussolini che interpreta il ruolo del duce. Due protagonisti ognuno dei quali faceva (male) la propria parte, ognuno dei quali avrebbe cavato gli occhi all’altro. Da cui i conversari e i battibecchi tra i due primattori cui fa da sfondo quell’altro “buonuomo” che aveva per nome Hitler, uno nei cui confronti entrambi nutrivano un ardente dissapore. Ardentissimo. Meno lo tenevano in conto meglio era. Più lo guardavano con gli occhi storti, meglio era. Solo che erano il suo gioco e le sue armate a condurre il gioco per un tempo della guerra, e per quanto il Montanelli del libro tutto fosse convinto fuorché che Hitler la guerra l’avrebbe vinta. Forse perché sapeva che i tedeschi prima o poi avrebbero combattuto su due fronti e dunque contro due eserciti, l’uno diversamente micidiale dall’altro.




Che l’esito di quella Seconda guerra mondiale fosse stato un indicibile parapiglia, tutto lo diceva. Chi aveva vinto la guerra? Gli inglesi che avevano tenuto botta da soli sui cieli di Londra, i marine americani che erano sbarcati nel giugno 1944 in Normandia, i fanti russi che avevano retto a Stalingrado sino all’ultimo metro quadro di territorio russo da difendere, le bombe di cui gli aerei americani si erano attrezzati in quelle loro baracche del deserto americano. Più ancora, a guerra finita avevano guadagnato più terreno i fanti russi che erano andati occupando le immense distese europee o invece i carri armati su cui scorrazzavano i tank americani? O forse non è che la guerra era finita, aveva soltanto cambiato “abito” al punto da diventare una guerra inesauribile, una guerra che non sarebbe mai più finita se non con la autodistruzione dell’umanità. E’ di questi giorni la dichiarazione di un ufficiale americano secondo cui la Russia attaccherà l’Europa non oltre dieci anni da oggi e che in quel caso l’Europa avrebbe ben scarse ipotesi di farcela. Guerra guerra guerra, era la parola pace che sembrava non conoscesse più sosta nel nostro vocabolario e chissà se mai più la conoscerà, stando a quel che succede, in Palestina o in Ucraina, o magari in qualche borghetto africano dove fallisce un attacco aereo, dove un missile svia dalla sua direzione e ne muoiono a caterve ogni volta di cui stentiamo a riconoscere la nazionalità. Solo vediamo a cose fatte i cadaveri smembrati di uomini donne e bambini.




In guerra tra il 1940 e il 1945 noi italiani non fummo decisivi laddove in pace eccome se ci giocammo tutte le carte su tutti i tavoli da gioco. Non sapevamo più chi eravamo e per chi combattevamo, talvolta eroicamente. Ora con gli uni ora con gli altri, pronti a qualsiasi giravolta, a qualsiasi dietrofront. Quale fosse la nostra identità di combattenti nessuno di noi la conosceva, fummo tutti e nessuno, i più fascisti fra gli europei, i più filosovietici fra i comunisti stalinisti, i più longevi di quelle mandrie ideologiche del secondo dopoguerra che volevano sistemare il mondo con riga e bacchetta a renderlo perfetto. Il nostro terrorismo politico del secondo Dopoguerra fu a sua volta il più longevo, trovammo il tempo di mirare al cuore di Palmiro Togliatti ma anche a quello di Aldo Moro, nessuna occasione andava persa. Buonuomini al cubo, eccome.




Quanto fosse friabile la nostra democrazia, il Montanelli del 1947 lo sapeva meglio di tutti, l’ambivalenza era la sua forza. Strepitosa è la pagina di Montanelli che nell’interpretare la figura di un Giovanni Giolitti di cui lui e il re non si fidavano, attribuisce la responsabilità di averci creduto alla democrazia di massa che fosse nelle mani di un elettorato italiano incolto e ostentatamente ignorante. Anziché mettere la democrazia italiana nelle mani di trecentomila cittadini colti e attrezzati intellettualmente, noi italiani vittoriosi della Prima guerra mondiale la mettemmo nelle mani di trenta milioni di italiani rozzi e incolti e mal ce ne venne e che fecero per un ventennio a chi urlava di più e a chi mostrava di più la muscolatura di cui non era dotato. Ne avemmo una bassa qualità della nostra democrazia prefascista (litigi annosissimi fra la gente del Psi e del Pci e così via) e una bassissima qualità dell’antidemocrazia che la combatteva a suon di olio di ricino e di manganelli. Tertium, ci aspettava nel secondo Dopoguerra lo stalinismo, di cui la sinistra italiana non poté fare a meno per trent’anni e di cui si tenne a cuccia, paralizzando la storia delle nostra democrazia. Strabocchevoli erano le quantità di armi rifugiate nei nascondigli partigiani del nord. Contro chi avrebbero sparato eventualmente nel 1948, e per quali loro sacrosante ragioni o almeno giudicate tali?

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