Le elezioni in India segnano una battuta d’arresto della teocrazia

Il premier Modi non ha sfondato alle urne. Il partito indù che fomenta lo scontro con i musulmani perde consensi

Le colossali elezioni nella più popolosa democrazia al mondo hanno segnato, a sorpresa, una battuta d’arresto alla teocrazia. Alla narrazione per cui alcuni, per quanto maggioranza, hanno più diritti di altri. All’idea che un capo indiscusso può fare il bello e cattivo tempo perché ha il consenso di una maggioranza (nazionale, etnica, religiosa, politica), che può cambiare le regole del gioco (a cominciare dalla Costituzione) per ottenere maggior potere di quel che ha già. È successo in India. È da vedere se succederà in Europa, in Iran, in Israele, e poi magari in America.

Sembrava che la destra etnico-teocratica fosse inarrestabile. Si dava per stravincente il partito ultra nazionalista, ultra sovranista, ultra intollerante. Il premier Modi puntava a una ultra maggioranza di 400 seggi sui 543 del Lok Sabha (la Camera del popolo). È finita che ne ha avuto una minoranza di 240. L’alleanza dell’opposizione attorno al Partito del Congresso, che sembrava destinato all’estinzione, ne ha avuti 234. Tutti i giochi si riaprono. È possibile che Modi riesca a rimanere primo ministro. Ma chiunque entri in una competizione elettorale stravincente e non stravinca è per definizione perdente.

Non è che ce l’ho con Narendra Modi. Se alla mia nipotina, mezza indù, di 4 anni, che vive in Inghilterra e non mi vede spesso, fanno vedere un giornale con la foto di Modi, lei dice subito: “nonno”. Una vaga rassomiglianza con me, capelli e barba bianchi, occhiali, l’aria mite e bonaria, non è l’unica analogia che mi evoca la figura del Primo ministro indiano. Parlo di analogie con altre situazioni in altra parte del mondo, compreso il nostro paese.

Un seguito e una popolarità che sfiora il culto della personalità. Un nazionalismo esasperato, per giunta di matrice religiosa. La propensione a favorire i ricchi, anche quelli in odore di malversazioni, purché gli siano amici. Il fastidio nei confronti dell’opposizione, qualsiasi opposizione (nei comizi promettevano un’India “liberata dal partito del Congresso”). La denigrazione sistematica, ingiuriosa, personale, degli avversari politici e degli intellettuali che la pensano diversamente. L’ossessione di “cambiare la narrazione”, rivedere la storia, correggere i libri scolastici. L’appropriazione dei media. L’uso spregiudicato di ogni nuovo medium di comunicazione di massa, ogni strumento di propaganda, fake news comprese. La voglia matta di restare solo al comando, senza dover fare compromessi con nessuno. L’inclinazione a pasticciare a questo fine la Costituzione e cambiare il sistema politico. La tendenza a concentrare tutto il potere in un partito unico, e a confondere partito, possibilmente partito unico e stato. L’incitamento all’odio nei confronti degli altri, e dei diversi. A cominciare dai diversi dalla maggioranza indù. In campagna elettorale Modi aveva dato degli “infiltrati” ai musulmani. Accusandoli di “fare più figli” per impadronirsi della ricchezza degli indù.

In India i musulmani sono oltre 200 milioni. Il che ne fa il terzo paese al mondo per popolazione islamica, dopo il vicino Pakistan (215 milioni) e l’Indonesia (245 milioni). Sono numeri che fanno impallidire il rapporto e la gara demografica tra ebrei e palestinesi, tra turchi turchi e turchi curdi, tra europei e immigrati, tra l’immaginaria “razza italiana” e gli altri, tra chi si dichiara “bianco” e quelli di altro colore negli Stati uniti. Le parole rivolte da Modi alla sua minoranza musulmana hanno qualche assonanza con il Make America Great Again (MAGA) di Donald Trump, con il bau bau sui messicani “delinquenti” e gli immigrati “criminali”, la “grande invasione”, e così via. Déjà écouté, già sentito? Mi suona famigliare anche il vezzo di lanciare il sasso e nascondere la mano. Il portavoce del partito di Modi ha precisato che col termine “infiltrati” il premier non si riferiva ai musulmani ma solo agli “immigrati illegali”. Aggiungendo però, subito dopo, che la cosa veniva strumentalizzata dall’opposizione per “ridefinire la demografia dell’India”.

Sono state le elezioni più calde di sempre. E non solo in metafora. La temperatura a Delhi ha superato il record dei 52 gradi. Ci sono state centinaia di morti. Eppure si sono viste ugualmente enormi code all’aperto, davanti ai seggi, di persone che aspettavano pazientemente il proprio turno proteggendosi con gli ombrelli. La maniera in cui gli umani si proteggono dal calore eccessivo è la sudorazione. Ma quando salta l’equilibrio tra calore e sudorazione si verifica un fenomeno che si chiama “effetto bulbo-umido”. Wet-bulb 35” il termine tecnico in inglese. L’effetto refrigerante si inverte. È stato stimato che una temperatura di bulbo umido di 35 gradi protratta per una durata di 6 ore porta alla morte delle persone, anche di individui in perfetta salute. È quel che succede, proprio in India, nelle pagine iniziali del romanzo fantascientifico di Stanley Robinson Il ministero per il futuro (Fanucci). Il “ministero” in questione è un’organizzazione planetaria che costringe i governi del mondo a darsi da fare, volenti o nolenti. L’India l’anno scorso ha superato la Cina in popolazione. Ha avuto in questi anni tassi di crescita superiori a quelli del resto del mondo. Il grande business ha molto di cui essergli grato. Così come si spiega che in America metà dei tycoon facciano il tifo per Trump piuttosto che per Biden.

Ma l’India è vulnerabile ai colpi di caldo e ad alluvioni catastrofiche. Se sono troppi i condizionatori accesi si rischiano i black-out. Senza contare che la fonte principale di produzione di energia elettrica lì è sempre il carbone. Il cui uso cresce a ritmo esponenziale. Si sono impegnati a ridurre, ma solo da qui al 2070. Sino ad allora il carbone resterà l’investimento più redditizio, è quello che più rende in termini di dare e avere, tangenti e favori, tra imprese e politica. È uno degli aspetti di quel che si potrebbe definire “suicidio consensuale”, suicidio con grande consenso popolare ed elettorale.

L’altro aspetto è la grande frantumazione politica, di casta, etnica e religiosa. Che da Modi è stata fomentata, esasperata. Musulmani e appartenenti alle caste inferiori vengono sempre più codificati come cittadini di categoria B. Il 22 gennaio di quest’anno, Modi ha inaugurato con grande pompa, ad Ayodhya, nello stato dell’Uttar Pradesh, un nuovo tempio indù alto 50 metri. Nello stesso luogo in cui nel 1992 una folla di fanatici indù aveva demolito una moschea, facendo duemila morti, per lo più musulmani. Un’altra sanguinosa rivolta di intolleranza religiosa c’è stata nel 2002 nello stato del Gujarat, proprio quando ne era chief minister Modi. Niente di nuovo sotto il sole, si dirà. Erdogan ha inaugurato e fatto costruire moschee a tutt’andare, altrettanto e anche più colossali, in ogni angolo, anche in piazza Taksim, simbolo della protesta. Ha persino riconsacrato a moschea Santa Sofia, di cui il fondatore laico della Patria, Atatürk, aveva fatto un museo per tutti. In Israele tra gli ultrà nel governo Netanyahu c’era chi voleva radere al suolo la spianata delle moschee a Gerusalemme (oltre che risolvere il problema Hamas una volta per tutte con un’atomica su Gaza). Putin ha reclutato la chiesa ortodossa russa, i suoi luoghi di culto e il patriarca Kyrill. Trump aveva promesso di chiudere, anzi bombardare (“bomb the shit out of them”, per la precisione) le moschee con predicatori che non gli garbavano. In Italia sindaci di destra non sono stati da meno.

Elettoralmente redditizio. Apparentemente non penalizza troppo nemmeno tra chi è bersaglio della discriminazione. Pareva che Modi potesse contare sull’8-10 per cento anche del voto dei musulmani, e su una buona fetta dei voti dei paria. Trump la prima volta è andato alla Casa Bianca grazie ai voti dei “dimenticati” del Midwest, degli operai del Michigan e della rust belt, la cintura industriale arrugginita. Se ci torna sarà grazie ai voti di neri e ispanici. I miei consuoceri indiani, che fanno gli avvocati a Londra, avevano votato decisi per la brexit e il bando all’immigrazione (ai nuovi immigrati, che vogliono venire qui e credono gli sia tutto dovuto, non vogliono fare i sacrifici che abbiamo fatto noi, la spiegazione che mi avevano addotto).

Ci sono anche altre analogie con fatti più vicini. L’orgoglio di razza, di clan, di etnia, di religione si associa spesso all’egoismo di parte, alla disattenzione verso i più deboli e i più fragili, alla difesa dei privilegi, all’esaltazione dei diritti e degli interessi individuali, o di casta, rispetto ai valori della solidarietà, al bene collettivo, all’interesse generale. È sorprendente come siano riusciti a farla franca. Modi aveva allegramente ignorato la minaccia Covid. Troppo occupato a fare campagna elettorale permanente, aveva tranquillamente continuato a promuovere manifestazioni di massa anche quando le infezioni superavano quota 200.000 al giorno. Si era guardato bene dal sospendere manifestazioni religiose come il Kumbh Mela, che raduna ogni 12 anni milioni di pellegrini indù per il bagno purificatore nelle acque sacre del Gange. Risultato: una strage di milioni di indiani, più che in tutti i disordini etnici. Sembrava dovesse uscirne indenne. La memoria è corta. Anche in Europa c’è un rigurgito di no vax, serbatoio di consensi elettorali della destra, esemplificazione suprema dell’io sto bene, che me ne frega degli altri.

L’India del movimento per l’indipendenza di Mohandas Gandhi e quella di Jawaharlal Nehru non concedeva nulla alla supremazia indù o di casta. Gandhi fu ucciso da un estremista di destra indù. La Costituzione indiana del 1950 proclamava l’assoluta eguaglianza religiosa di tutte le confessioni. Il partito del Congresso, che ha governato l’India per molti decenni, avrà avuto le sue pecche, ma considerava la supremazia indù una perversione ideologica. La nuova narrazione propugnata da Modi e dal suo partito Bharatiya Janata, traducibile come “Partito del Popolo Indiano”, è che solo gli indù hanno diritto a chiamarsi indiani. Gli altri sono per definizione “non indiani”, infidi, o addirittura traditori. Lo slogan che chiama gli altri e i diversi “traditori” era stato usato per la prima volta da una ministro del governo Modi, in campagna elettorale a Delhi. Lui urlava lo slogan: “traditori della nazione”, la folla gli rispondeva in coro: “ammazziamoli tutti”. Di tanto in tanto sono passati dalle parole ai fatti. Intellettuali, scrittori, professori, funzionari pubblici, giudici, giornalisti che denunciavano l’andazzo sono stati associati ai traditori. Molti sono stati allontanati da scuole e università.

La nuova legge sulla cittadinanza fa per la prima volta della religione un prerequisito per la cittadinanza. Hanno cambiato i libri di testo. Nelle scuole gli si insegna ormai questo. Aveva creato parecchia ansia tra i non indù l’annuncio dell’istituzione di un Registro nazionale dei cittadini. Al fine di individuare gli illegittimi da espellere. Avevano soprasseduto solo quando era venuto fuori che in Assam, e probabilmente in altri stati, il numero degli “immigrati illegali” indù superava di gran lunga quello degli “illegali” musulmani. Da quando Modi è al potere, dal 2014, la Costituzione originaria, che sostiene esattamente il contrario, è stata continuamente stiracchiata, emendata, modificata per adeguarla alla nuova narrazione. Non di colpo, poco a poco. Un ritocco qui, un ritocco là. Ma nella stessa precisa direzione: dare più poteri al capo del governo, ridurre quelli del Parlamento, smussare i contrappesi istituzionali, sommergere in un mare di uniformità maggioritaria le isole di indipendenza, tipo università o magistratura. Il tutto fingendo di non volere toccare i fondamentali. Un costituzionalista dell’Università di Oxford ha definito il processo come un modo per “uccidere una Costituzione con mille tagli” (l’atroce modo di giustiziare i criminali tagliuzzandoli poco alla volta a pezzetti, in uso nella Cina Qing).

In India non hanno il premierato. Il capo del governo non viene scelto per elezione diretta. E neppure il presidente, eletto da una commissione delle due camere, un po’ come in Italia. È una democrazia parlamentare, con più partiti. Tutti i modelli politologici davano sin dall’inizio la democrazia come scientificamente spacciata in un paese complicato e frantumato come l’India. E invece, anche grazie alla Costituzione, la democrazia lì ha retto più a lungo di quanto abbia retto il comunismo in Unione sovietica. Pasticciare le Costituzioni non ha quasi mai portato alcunché di buono. Da nessuna parte.


In genere serve ad allungare oltre i limiti, o trasformare in perpetuità la permanenza di chi è già al potere. È il caso di Putin in Russia o di Xi Jinping in Cina. La spaccatura costituzionale profonda in cui Israele si era trovata prima del 7 ottobre, in seguito alle proposte limitazioni dei poteri dei giudici serviva a blindare, prolungare Netanyahu al governo. In Iran la pecca costituzionale che confonde i poteri del capo religioso non eletto con quelli del presidente eletto, è originaria. Sono orripilanti le modifiche che, secondo autorevoli addetti ai lavori, Trump vorrebbe e potrebbe apportare alla vetusta Costituzione americana nel caso che fosse rieletto. Il blue-print, la traccia, è quello che ha già fatto alla Corte suprema in un solo mandato. Ci sono naturalmente anche eccezioni alle ingegnerie costituzionali finite male. Pochissime. Tra queste la trasformazione della Francia in Repubblica presidenziale, la Quinta Repubblica. Era il 1958. C’era la guerra d’Algeria. Avevano un leader coi fiocchi, Charles De Gaulle. Un generale sì. Ma che li aveva liberati dai nazisti. Mica la Le Pen o Viktor Orbán.

Si tratta di una malattia a cui sono soggette le democrazie in mezzo mondo. I politologi la chiamano “democrazia illiberale”, “autoritarismo competitivo”, “maggioritarismo etno-politico” o “populismo autoritario”. In India, in Iran, in Israele si potrebbe chiamarla spinta teocratica. Qualcuno lo chiama fascismo, e viene in genere zittito. A Meloni e amici la parola fa venire l’orticaria. A nessuno piace essere associato ai nazisti. Nemmeno ad Alternative für Deutschland in Germania. Trump preferisce dare dei fascisti agli avversari. Si presenta in molte varietà, diverse l’una dall’altra. In India il successo preannunciato di Modi sembrava poggiare sul fatto che il suo Bjp è il partito incomparabilmente più efficiente, rispetto ad un’opposizione frammentata. Non ha mai reciso il cordone ombelicale con il Rashtriya Swayamsevak Sangh (Rss), organizzazione militante che propugna la supremazia indù. Il “fascismo”, se per comodità possiamo definirlo così, ha più varianti di un virus. Non saprei quale definizione più si addica a quella che si è affermata in questi anni come una deriva planetaria. Forse di definizioni bisognerebbe trovarne di nuove. L’unica cosa di cui sono certo è che non mi piace, in nessuna di queste molteplici forme. Ma forse non è imbattibile. In India stavolta qualcosa gli è andato storto, il voto gli si è messo di traverso.

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