La categoria fantasmatica degli Intellettuali

“Intellettuali” (Treccani) è un libro che ripercorre la storia della figura degli intellettuali analizzando i pensieri di Zygmunt Bauman, Bruno Bongiovanni ed Emanuele Coccia

Il sostantivo “intellettuale” s’impose nella polemica francese sul caso Dreyfus, intorno al quale si mobilitò una folta schiera di accademici e di artisti. Non senza ambiguità, la loro militanza richiamava il mondo della cultura a un impegno umano integrale (dunque anche politico) che le specializzazioni stavano mettendo in crisi. Sotto il titolo “Intellettuali”, un libretto edito da Treccani ci propone oggi tre testi che dovrebbero sintetizzare la storia di questa categoria fantasmatica quanto famigerata.

I due più rilevanti, che risalgono a una trentina di anni fa, sono firmati dal sociologo Zygmunt Bauman e dallo storico Bruno Bongiovanni; il terzo è un’introduzione scritta ad hoc dal filosofo Emanuele Coccia. Nella civiltà post medievale, osserva Bauman, le classi e i saperi diventano mobili, dinamici: perciò, accanto alla forza bruta, acquista importanza il dominio esercitato attraverso il sistema educativo, cioè attraverso una cultura “artificiale” elaborata e mediata da una nuova élite di ricercatori e insegnanti. Nei membri di questa élite si sviluppa una peculiare scissione tra teorie e concrete esperienze quotidiane. L’apparente trasversalità ai ceti li illude di essere più liberi degli altri uomini, ma al tempo stesso li rende precari, ambivalenti sia verso i governanti sia verso il popolo, oscillanti tra assimilazione e snobismo: finché, secondo la nota tesi del sociologo, nel passaggio dalla modernità alla postmodernità la loro pretesa natura di “legislatori” si trasforma in quella più modesta d’“interpreti” di ideologie che si trasmettono tramite canali massmediatici ormai autonomi.

Nell’eccellente saggio di Bongiovanni ci si offre un panorama ancora più vasto. Lo storico risale alla tripartizione castale delle società arcaiche, soffermandosi sulla funzione dei sacerdoti; distingue in Grecia l’“intellettuale” platonico, che vuole redimere la politica, dal corrosivo sofista; e passando per l’epoca della stampa arriva ai libertini-illuministi che dànno un senso inedito al termine “philosophe”, definendo l’opinione pubblica moderna in una continua dialettica con la borghesia; accenna alla Russia populista e alla Belle époque d’occidente, in cui l’intellettuale, identificato col progressista, genera per reazione il suo gemello anti intellettuale; e chiude sul Novecento, che ha visto opporsi i difensori dell’Indipendente e i sostenitori del Militante (da una parte Weber, Benda, Croce, Bobbio, Aron, e dall’altra Lukács, Gentile, Togliatti, Sartre) in un dibattito liquidato poi dalla neosofistica foucaultiana.

Quanto all’introduzione di Coccia, sconcerta il fatto che ignori il resto del libro, e in fondo il tema stesso. Questo filosofo è un esempio euforico di liquidità baumaniana. Scrive come se pattinasse su una superficie liscia, senza attriti. La sua attrezzatura sportiva ha etichette averroiste, deleuziane, o pescate tra le biennali d’arte, ma ricorda anche gli arredi delle “Cose” di Perec. Coccia sembra credere a un’abolizione degli aspetti negativi per via magico-verbale. “Ogni attività umana è di ordine intellettuale” afferma, e propone di trasformare “in arte qualsiasi movimento che caratterizza la nostra vita”. Ma il suo agio esibito, nell’alludere alle metamorfosi virtuali in cui tutto si confonde con tutto, nasconde una verità ben diversa. Contro l’Intellettuale come ruolo, Fortini insisteva su una funzione intellettuale universalmente umana. Per Coccia, al contrario, qualunque cosa o atto diventa intellettuale, basta che sia griffato da chi “è di ruolo”. Dietro la sua apparente democrazia addirittura postumana, o cosmica, c’è il gergo di una corporazione umanissimamente ristretta che non vuole più riflettere sul suo status; e i danni che produce sono evidenti da tempo, nelle nostre società tanto più alienate quanto più scolarizzate.

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