“In Italia non lavoriamo con te, israeliano”. La stella gialla del boicottaggio contro gli ebrei

“Presto sarà una colpa avere un cognome ebraico”. La denuncia di alcuni accademici internazionali, boicottati nel loro lavoro di ricerca

Nir Davidson, un famoso professore di Fisica al Weizmann Institute in Israele, ha suggerito a un collega italiano di chiedere insieme un finanziamento a una fondazione per un progetto. “A causa delle atrocità che il suo paese sta perpetrando, migliaia di professori e ricercatori hanno firmato una petizione per chiedere il blocco di ogni collaborazione con Israele”, ha risposto il collega. Quindi no, Davidson non era benvenuto in Italia. In un altro caso, il tentativo da parte di un’università ebraica di trovarne una in Italia che partecipasse a un progetto congiunto si è concluso così: “Ho ricevuto come un pugno nello stomaco dai miei colleghi di lunga data”, racconta uno studioso israeliano. I due casi fanno parte di una inchiesta di Haaretz. Una prestigiosa rivista accademica pubblicata dalla University of Minnesota Press, Cultural Critique, ha appena informato uno studioso israeliano che non avrebbe esaminato un articolo da lui presentato a causa della sua nazionalità. Cancellazione di inviti a conferenze, congelamento di incarichi in università straniere, rifiuto di articoli scientifici, interruzione di conferenze all’estero, cessazione della collaborazione con colleghi, fino al boicottaggio generalizzato delle università israeliane (come nel caso di Palermo). Israele sta subendo il peso di un boicottaggio accademico senza precedenti.

Gilad Hirschberger, psicologo sociale dell’Università di Herzliya, aveva ricevuto un invito come relatore a Oslo per una conferenza sul trauma collettivo. “Ci dispiace informarla che dobbiamo ritirare il nostro invito per evitare la collaborazione con i rappresentanti dei paesi coinvolti nella guerra in corso”, gli hanno scritto. “Le persone hanno reciso i legami con noi: hanno smesso di rispondere alle email e sono semplicemente scomparse”, afferma Vered Vinitzky-Seroussi, sociologa dell’Università ebraica di Gerusalemme. Un altro incidente ha coinvolto Ravit Alfandari dell’Università di Haifa. Ha lavorato per un anno con un ricercatore irlandese sulla violenza domestica. “Ho molto rispetto per te, ma non ho più intenzione di lavorare con te. State commettendo un genocidio a Gaza”, la risposta. Liat Ayalon dell’Università Bar-Ilan ha presentato un articolo a una rivista accademica dove aveva già pubblicato in passato. Trattava dell’impatto della guerra sugli anziani in Israele, tra cui molti sopravvissuti alla Shoah. L’editore la chiamò chiedendole di ritirare l’articolo. “Presto sarà un problema avere un cognome ebraico”, la risposta di Ayalon. Gili Drori, preside della Facoltà di Scienze sociali dell’Università ebraica, avverte: “La diga è crollata ed è un mondo completamente nuovo. Non so se e come sarà possibile invertire la situazione”.

Che fare? Dina Rubina, la più famosa scrittrice russo-israeliana, era stata invitata dall’Università di Londra. Ma le hanno posto come condizione di dire cosa pensava della guerra a Gaza. “Hamas ha compiuto atrocità che nemmeno la Bibbia può descrivere e che impallidiscono di fronte ai crimini di Sodoma e Gomorra”, ha risposto Rubina. “Ora, con immenso piacere, a tutti gli ‘intellettuali’ senza cervello interessati alla mia posizione dico: andate a fare in culo”.

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  • Giulio Meotti
  • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.

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