Che felicità al museo. Dai malori di Stendhal alla cura nei musei, la rinascita degli spazi culturali

I musei oggi offrono esperienze multidimensionali che curano l’anima e promuovono l’identità. Da Brera a Torino, nuove narrazioni e tecnologie trasformano le visite in viaggi terapeutici

Avete presente la sindrome di Stendhal? In pieno Ottocento, lo scrittore francese esce dalla basilica di Santa Croce e ha un mancamento. Le opere d’arte gli avevano provocato una vertigine emotiva. Altri turisti, al cospetto di dipinti e architetture, manifestarono disturbi psichici e fisici: vertigini, confusione, nausea, allucinazioni. Nel mondo d’oggi capita il contrario, c’è chi magari rinsavisce. Lo ha raccontato alla presentazione nella Pinacoteca di Brera di “Museum seed – the futurability of cultural places” (Electa), Paolo Inghileri, professore di Psicologia sociale all’Università degli Studi di Milano. I musei possono diventare luoghi che aiutano a curarsi. In gita al Museo egizio di Torino con un gruppo di ragazzi, tra cui uno di origine egiziana che viveva una grave forma di disagio sociale, ha potuto notare che, posto di fronte alla grandezza delle realizzazioni e della civiltà del suo paese d’origine, quel ragazzo aveva trovato un senso d’identità e orgoglio che lo ha curato. “Condividere esperienze ed emozioni con gli altri visitatori, anche molto diversi da noi, ci fa star bene. I musei diventano così un fattore di cittadinanza psicologica intesa come un sentimento positivo di identità e di partecipazione a un bene comune”, scrive Inghileri nel volume, di cui gli architetti Ico Migliore e Mara Servetto sono autori e curatori.

Specializzati nella creazione di spazi museali, tra cui il Museo egizio di Torino, il Museo Chopin di Varsavia, Il Museo di Storia naturale e l’ADI di Milano e The Human Safety Net nelle Procuratie Vecchie di Venezia, chiamano a raccolta direttori di musei, curatori, architetti, critici, storici cercando una misura che bilanci l’esperienza estetica con l’esigenza estatica cercata dai nuovi pubblici.



La sfida contemporanea è quella di svecchiare gli spazi esistenti e di progettarne di nuovi per chi non si fa più bastare la pura contemplazione ma chiede esperienze multidimensionali. La progettazione degli allestimenti punta al mirroring effect, con il visitatore che non si pone di fronte a qualcosa da osservare ma si trova dentro la scena. Entrano in gioco le neuroscienze, che integrano la scienza dello spazio fisico. Come scrive Andrea Gaggioli, docente di Psicologia della Cattolica, “è essenziale creare narrazioni che promuovano la riflessione critica e l’immaginazione, spingendo le persone a riconsiderare la propria realtà personale e collettiva, coltivando il senso di scoperta e la meraviglia”. Diversi interventi nel volume riguardano dunque il ruolo della realtà aumentata. Fulvio Irace nota che “nel secondo dopoguerra, era stato il linguaggio dell’industrial design a sovvertire il canone museale, cercando di renderlo un luogo più democratico. Ora invece la rivoluzione ipermediatica che ha invaso gli spazi dei musei, ha il conforto di spiegazioni sociologiche e antropologiche di rilievo, ma ancora non dispone di una teoria”.



Dalla sindrome psichiatrica stendhaliana al museo identitario e curativo, il seme del dibattito sui nuovi abiti delle istituzioni culturali è ormai germogliato.

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