Che cosa vuol dire blocco dello scrittore quando tutti scrivono, ovunque

Lettera che va, contrattempo che viene. Ogni carteggio è anche una fenomenologia dei servizi postali. Lettere. Risposte. Altre lettere. E i post scriptum, che recitano tutti: ha ricevuto la mia lettera di ieri? Io non ho avuto alcuna risposta. Finalmente è arrivata la sua lettera! Aspetti mie notizie martedì, ma al mattino.  “La lettera di venerdì è arrivata soltanto il mercoledì. Lettere espresse e raccomandate viaggiano più lente delle ordinarie,” si lamentava Franz Kafka nella Pensione Ottoburg di Merano, la stessa da cui scriverà instancabilmente alla scrittrice boema Milena Jesenská, traduttrice del suo racconto Il fuochista. “Che ne pensa? Potrei ricevere una sua lettera entro domenica?”.

 

Parlando di lettere e di Kafka, ecco che ne salta fuori una a sua firma indirizzata all’amico ed editore Ehrenstein proprio nella primavera del 1920, nei giorni della Pensione Ottoburg. Verrà messa all’asta a fine mese da Sotheby’s per una cifra tra gli 80.000 e i 100.000 euro. Ehrenstein la conservò per quasi trent’anni e la inviò nel 1948 all’artista Dolly Perutz, fuggita in Usa per scappare da Hitler – c’è anche la busta, originale e col timbro dell’Air mail. E’ senza data e contiene il rifiuto dello scrittore a collaborare con un racconto alla rivista “I compagni” di cui l’amico era direttore. Rifiuto che non scaturiva da una contrarietà, ma da una ragione del tutto inedita: come pochissime altre volte, Kafka parla via lettera del suo lavoro di scrittore e, nella fattispecie, del suo blocco totale. “La verità è che sono tre anni che non scrivo”. Ma cos’è, il blocco dello scrittore? Il feticcio di ogni dilettante o l’ossessione dei grandi? Solo un mito romantico o un ostacolo concretissimo? Un’eccessiva mitizzazione della scrittura che arriva al punto di negare sé stessa o un contrattempo (a suo modo postale) per effetto del quale all’anima dello scrittore non perviene che una busta perennemente vuota?

 

Cara Milena, oggi voglio scrivere di altre cose, ma le cose non vogliono”. Franz Kafka e la lotta con la scrittura, raccontata in una riga di lettera datata fine aprile 1920, spedita proprio da Merano. E’ lecito, oggi, leggerla in controluce, soprattutto dopo quella a Ehrenstein? “Kafka distoglie i romanzieri dal romanzo,” ha scritto recentemente Zadie Smith. Ma sembrava voler distogliere anche sé stesso dalla scrittura: tutta la sua opera è attraversata da una consapevolezza di natura segretamente ostruzionistica – “il mutismo è un attributo della perfezione”, scriveva nel novembre del 1917.

 

Perché il punto è proprio questo: chiunque scrive sa che sarebbe meglio non scrivere. La scrittura eccita la scrittura, ma evoca la rinuncia. La contiene. Se ne nutre. Lord Chandos abdica perché qualsiasi oggetto in cui si imbatte – scrive un’ultima volta al suo mentore – può assumere un tratto tanto commovente e vasto da non bastargli più il vocabolario per esprimerlo. Ma esiste davvero l’indicibile, nel nome del quale poi si rinuncia a dire? Al contrario, non è questo silenzio in agguato il più potente motore della scrittura? A cosa mira uno scrittore quando decide di prendere in mano la penna, atto non privo di conseguenze? Enrique Vila-Matas ha risposto con Bartleby e compagnia, il più bel romanzo sugli scrittori della rinuncia. I Bartleby, in ossequio al grande negatore raccontato da Melville, finiscono per non scrivere pur avendo tutto il talento per farlo. Se lo fanno, restano paralizzati. Del resto, chi racconta la storia dei Bartleby è uno che dichiara di scrivere solo note a piè pagina. La scrittura è una Gorgone che pietrifica?

 

Eppure, si dirà, nella storia dell’uomo non si è mai scritto tanto come oggi. Si scrive ovunque. La scrittura ha vinto. O ha perso? Affermandosi e diffondendosi ha cancellato sé stessa? Il blocco dello scrittore è l’unica reazione consapevole all’orgia di parole, comprese le proprie?  Da queste parti non stravediamo per le fenomenologie dell’infertilità, e ricordiamo che Faulkner disse che l’obiettivo di ogni scrittore doveva essere fallire sempre meglio. Il blocco dello scrittore può essere il fallimento per eccellenza? Chi scrive, non scrive. Lo fa per vedere l’effetto che fa. Il rischio è che non sia niente male.

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