Anche senza Gantz ed Eisenkot il governo Netanyahu va avanti lo stesso

Il premier potrebbe dover rinunciare al governo e cercare una nuova maggioranza. Ma chi lo conosce dice che ha un piano B: attendere le elezioni americane e sperare nella vittoria di Donald Trump

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu non prende le decisioni da solo, quello che sta accadendo in Israele in questi mesi non è la mossa di un uomo solo al comando, ma lo studio di un gruppo di politici talmente eterogeneo che mai e poi mai si definirebbero tra di loro “alleati”, anzi, si detestano e detestano il primo ministro Benjamin Netanyahu. Dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre, alcuni politici israeliani hanno deciso di mettere da parte antipatie e battaglie e hanno raggiunto il premier detestato e la sua coalizione improbabile di estremisti rabbiosi per dimostrare che nel momento di necessità vitale, il paese era in grado di unirsi per prendere le decisioni che contano.




Adesso questa unità potrebbe essere arrivata alla rottura con l’ex capo di stato maggiore Benny Gantz e il generale Gadi Eisenkot, pronti a lasciare il governo dopo aver dato un ultimatum: o facciamo e attuiamo un piano serio per Gaza e gli ostaggi o noi abbandoniamo il gabinetto di guerra. L’ultimatum scade oggi, la collaborazione tra Gantz e Bibi potrebbe finire – Gantz ha convocato i giornalisti per una dichiarazione quando in Italia saranno le 19 e 40 –, ma il governo andrebbe avanti ugualmente perché il premier ha sempre la sua coalizione a sostenerlo, i numeri non gli mancano, anche se non sono più rappresentativi di cosa voterebbero oggi gli israeliani disamorati di lui. Nulla cambierebbe, se non la consapevolezza che il nuovo gabinetto di guerra potrebbe essere composto da figure molto diverse rispetto a Gantz ed Eisenkot, che nella Striscia ha perso anche suo figlio e viene visto come un simbolo di quanto il paese sta pagando per la guerra contro Hamas.


I governi in Israele non cadono mai sotto i colpi e le macchinazioni dell’opposizione, ma perché spesso sono costituiti da maggioranze variegate e prima o poi arriva la questione su cui dividersi, quindi anche la stabilità di questo governo potrebbe essere momentanea e difficilmente resisterebbe a due possibili scossoni: la legge sulla leva per gli ultraortodossi e i negoziati per la normalizzazione con l’Arabia Saudita. I partiti religiosi dentro alla maggioranza sono intenzionati a bloccare il più a lungo possibile la disposizione della Corte suprema che ha ordinato di fermare i fondi per gli studenti ultraortodossi che non svolgono il servizio militare chiedendo al governo, in alternativa, di fare una legge per regolare l’esenzione. L’esercito ha bisogno di soldati e non è più concepibile che soltanto una parte della società paghi con la vita la sicurezza di Israele: i soldati morti a Gaza sono quasi trecento.




Prima o poi, la maggioranza perderà la sua compattezza, i politici non potranno continuare a nascondere un problema che molti israeliani vedono come un’ingiustizia, un retaggio del passato non più ammissibile, né potranno ritardare le richieste della Corte suprema. Il ministro della Difesa Yoav Gallant, volto impassibile della guerra, non potrebbe continuare a non ascoltare l’esigenza dell’esercito, soprattutto mentre il paese teme uno scontro ancora più grande con Hezbollah che lancia minacce e missili dal confine con il Libano, e non potrà assecondare le richieste dei partiti che vogliono regolare una volta per tutte l’esenzione. E’ molto probabile che il governo cada su questo punto e vada a elezioni anticipate che potrebbero tenersi il prossimo anno. La leva obbligatoria non è l’unico argomento di litigio e rottura, c’è un altro tema che questa maggioranza farebbe fatica ad affrontare: il piano per la normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita. Gli americani lavorano senza sosta per favorire questa rivoluzione nelle relazioni in medio oriente, ma i sauditi vogliono che uno dei princìpi dell’intesa sia il riconoscimento dello stato palestinese. Dopo il 7 ottobre parlare di uno stato palestinese è diventato molto complesso in Israele, anche i moderati che un tempo avrebbero appoggiato senza remore il principio dei due popoli, due stati adesso sono restii a parlare di uno stato palestinese.




Per chi siede nella maggioranza di governo è un argomento inammissibile: il ministro Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir parlano di andare a occupare Gaza, anche se non è un’opzione reale – non lo vuole la maggioranza degli israeliani e non lo vuole l’esercito. Per Netanyahu l’accordo con i sauditi sarebbe il coronamento di una carriera di alleanze ritenute inverosimili, ma dovrebbe ottenerlo rinunciando al suo governo e cercando una nuova maggioranza. Chi conosce il premier dice che ha un piano alternativo: attendere le elezioni americane, sperare nella vittoria di Donald Trump, e tentare di strappare ai sauditi un patto più vantaggioso.

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  • Micol Flammini
  • Micol Flammini è giornalista del Foglio. Scrive di Europa, soprattutto orientale, di Russia, di Israele, di storie, di personaggi, qualche volta di libri, calpestando volentieri il confine tra politica internazionale e letteratura. Ha studiato tra Udine e Cracovia, tra Mosca e Varsavia e si è ritrovata a Roma, un po’ per lavoro, tanto per amore. Sul Foglio cura con Paola Peduzzi l’inserto EuPorn in cui racconta il lato sexy dell’Europa, ed è anche un podcast.

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