Cosa vuol dire sapere tutelare la società aperta. Lezioni da Luigi Einaudi

Il 2 giugno di settantotto anni fa il futuro primo Presidente della Repubblica eletto dal Parlamento votava per la monarchia. Il referendum, dirà innanzi al Parlamento in seduta comune due anni dopo, aveva dimostrato che l’Italia “era ormai matura per la democrazia”. Luigi Einaudi ha scritto pagine e pagine per spiegare come “il bello, il perfetto non è l’uniformità, non è l’unità, ma la varietà e il contrasto” e a prenderle appena sul serio si capisce che aveva meno problemi di altri a trovarsi in minoranza. La sua adesione al nuovo regime, va da sé, fu tutto fuorché formale. Ma a rileggere l’Einaudi che fece campagna elettorale da monarchico si colgono alcune preoccupazioni non inattuali, sulla repubblica in generale e la carica che poi ricoprì in particolare. Se si poteva pensare, nel 1946, che il governatore della Banca d’Italia fosse ormai presbite, col senno di poi della storia repubblicana appare lungimirante.
 

Einaudi sostanzialmente è preoccupato da due questioni. La prima è che in cima alla Repubblica non riesca a stare un potere “neutro” com’era il sovrano di una monarchia costituzionale. La seconda è che una Repubblica risulti un regime con un tasso di “politicizzazione” e di accentramento più marcato di una monarchia. Circa il secondo punto, Einaudi scrive che se la repubblica fosse “per definizione” meno accentratrice della monarchia, egli sarebbe repubblicano. Non è proprio lui forse che appena due anni prima ha intimato che “il delenda Carthago della democrazia liberale è: Via il prefetto!”, la più tangibile manifestazione del centralismo italiano?
 

Non è detto però che “la monarchia debba necessariamente essere accentratrice e statolatra e la repubblica amante delle autonomie locali e aliena dalla statolatria”. Non bisogna guardare ai modelli in astratto, bensì alla storia: fino alla Restaurazione, spiega, la monarchia sabauda non ricalcava il modello francese. “Il re era re di e in Sardegna; ma, principe in Piemonte, duca in Savoia e in Aosta, marchese nel Monferrato e nel Saluzzese (…) a ognuno di quei titoli corrispondeva una diversa realtà (…) Tanto era vivo a radicato il senso di autonomia locale!”. Poi “il quindicennio napoleonico abituò i piemontesi, i nizzardi, i savoiardi, i monferrini, i valdostani, ai vantaggi del vivere in un grande stato, al miraggio delle facili carriere, al comodo dell’ubbidire senza il fastidio di pensar da sé, faticosamente, alle cose proprie. Invano il reduce principe richiamò in vigore gli antichi statuti e le antiche leggi”. Il meglio della classe dirigente subalpina, nota Einaudi, altro avrebbe voluto: l’ordinamento prefettizio fu esteso a tutto il Regno d’Italia “contro la volontà del conte di Cavour”, e in buona sostanza per pregiudizio verso gli stati annessi.
 

Einaudi immagina di stipulare col monarca che egli “sia Re per la difesa di tutti noi contro chiunque di noi si eriga a oppressore nostro e contro la follia di noi stessi se per avventura ci persuadessimo a rinunciare alla nostra libertà”. Parole che non devono aver persuaso granché chi non poteva dimenticare come Vittorio Emanuele III avesse consegnato il Paese a Mussolini. Einaudi era un sentimentale, affezionato del tricolore con lo stemma di casa Savoia? Anche, ma non solo.
 

La questione per lui cruciale è che se deve esistere un potere neutro, il quale è pure arbitro del gioco politico, esso deve appellarsi a una fonte di legittimità diversa dall’assemblea legislativa. Se c’è “potere posto al disopra dei partiti”, questo deve essere legittimato da qualcosa di diverso dal gioco dei partiti stessi. La preferenza per la monarchia risponde al bisogno di fondare questo potere su quel “patrimonio delle tradizioni e delle glorie avite” che “è patrimonio di tutti”.
 

Se davvero desideriamo un governo “stabile, ordinato e veramente libero” dobbiamo comprendere che esso richiede la convivenza di poteri che si alimentano da diverse sorgenti. “Non ci deve essere una sola fonte di potere; deve esistere un Presidente, ma non si chiama Presidente della Repubblica: quel Presidente si chiama Capo del Governo. In Inghilterra e in tutti i Dominions anglosassoni il vero Capo dello Stato è il Capo del Governo, il quale non deve la sua carica puramente e semplicemente al Parlamento, ma è designato da una elezione popolare. Churchill prima e Attlee adesso non hanno ottenuto la loro carica perché eletti dalla Camera: essi sono stati imposti alla Camera dalla volontà popolare, manifestatasi nella maniera più chiara a loro favore”.
 

Einaudi non era un presidenzialista ante litteram, si guarda attorno e nota che l’unica repubblica presidenziale funzionante è quella americana. Conta la cultura diffusa, il ruolo del potere giudiziario, e conta guardacaso che i due rami del Parlamento e il Presidente si appoggino su corpi elettorali differenti. E contò pure la saggezza con cui Washington si ritirò a vita privata dopo otto anni, accettando di non dilatare i tempi del suo mandato ovvero di non farsi re.
 

Una società libera dev’essere una costellazione di poteri, affinché l’ambizione dell’uno bilanci quella dell’altro. Il mosaico delle autonomie che Einaudi ha in mente, e che ci dice essere coerente con la storia più antica del Regno (e, a maggior ragione, dell’Italia tutta) si salda bene con un capo dello Stato il cui compito è in qualche modo difendere i suoi sudditi dalla politica e che è senz’altro “forte”, ma forte di una legittimazione estranea al sistema dei partiti. Un criterio come la nascita, che pure suona così male alle orecchie dei moderni, questo fa. Consente che il capo dello Stato preservi la propria alterità proprio perché è altra cosa, rispetto alla politica democratica. Quanto è più difficile per chi invece ne è l’espressione, per chi l’ha frequentata, per chi è cresciuto al suo interno e diventa Presidente in nome di essa, chiamarsene fuori, una volta varcata la soglia del Quirinale. 

Leave a comment

Your email address will not be published.