Benetton, chi? Luciano, un addio che sembra una resa

La generazione dei fondatori lascia spazio a quella dei figli, anche nel colosso nato a Treviso. Si ripeteranno le stesse divisioni?

Il quartetto operoso ha tirato a più non posso. Finché è rimasto un quartetto e soprattutto operoso. C’era Giuliana intenta a sferruzzare le maglie colorate. C’era Carlo che curava la produzione, sarebbe piaciuto a Bernard de Mandeville per il suo alveare felice. C’era Gilberto che alimentava quell’arnia ben organizzata e poi c’era Luciano, il primogenito, il visionario, il “farfallone amoroso”. Con la sua lunga chioma vaporosa, gli abiti fantasiosi, la bella postura finiva immediatamente negli obiettivi dei fotografi dovunque si presentasse, fosse una grigia e severa assemblea della Banca d’Italia o una mostra di Oliviero Toscani. La famiglia Benetton al culmine del successo era stata raccontata come il sogno americano in salsa trevigiana che nasce con il boom postbellico, matura nei “favolosi anni Sessanta”, esplode nei ruggenti Ottanta, si chiude con l’arrivo del nuovo secolo, ricco di denaro, ma povero di quello spirito imprenditoriale che avrebbe mandato in solluchero Joseph Alois Schumpeter. Il sogno dura a lungo prima che arrivi un drammatico risveglio. Gilberto e Carlo muoiono a breve distanza nel 2018, il primo a 77 e il secondo a 75 anni, lo stesso anno in cui crolla il ponte di Genova. Giuliana lascia le redini ai figli. E adesso Luciano annuncia il suo mesto addio con un’intervista al Corriere della Sera, svelando di non essersi accorto che si era formato un buco nei conti da cento milioni di euro, arrivati in realtà a 230, per coprire i quali la famiglia ne ha sborsati 150. Ce ne vorranno ancora per raddrizzare i colori non più uniti del gruppo Benetton. Martedì scorso il fondatore ha presieduto l’ultimo consiglio di amministrazione, il 18 giugno l’assemblea metterà il sigillo. Il nuovo cda avrà solo manager (presidente Christian Coco da tempo in azienda e nuovo amministratore delegato Claudio Sforza). Nessun membro della famiglia che, tuttavia, tiene saldamente in mano le chiavi della cassaforte.

Luciano che convinse il quartetto di Ponzano Veneto a mettersi in proprio nel lontano 1955, di quattrini ne ha fatti davvero molti fino a essere considerato uno degli uomini più ricchi d’Italia, ma ai conti ha sempre pensato Gilberto il quale ogni volta che il fratello maggiore illustrava le sue idee spesso controcorrente, chiedeva: “Sì, ma i soldi da dove arrivano?”. A quei tempi Giuliana lavorava fino a notte fonda; Luciano il giorno dopo, a bordo della sua Vespa, piazzava i pullover nei negozi del circondario; Gilberto girava di banca in banca per assicurarsi il prestito che avrebbe consentito a Carlo di prendere in affitto la macchina per la maglieria. Una divisione del lavoro rimasta immutata anche quando quel laboratorio artigianale era diventato una piramide industriale con la cima nascosta tra le nuvole che solo i quattro fratelli potevano superare. I rapporti con i manager, entrati quando l’azienda s’era fatta troppo grande per essere gestita solo in famiglia, non sono mai stati tranquilli, nemmeno con Gianni Mion artefice del passaggio dalla manifattura ai servizi, dalla produzione alla rendita di posizione. Perché una cosa doveva essere sempre chiara a tutti: a comandare erano sempre e solo loro, soprattutto Luciano poi Gilberto. Colpisce quindi come, nei momenti di grave crisi, sia scattato lo scaricabarile. E’ successo con il collasso del viadotto sul Polcevera, il tragico evento che ha segnato l’inesorabile caduta dei Benetton. Sta capitando di nuovo. E non è davvero la prima volta che i conti siano in rosso nel nucleo originario, l’abbigliamento. Lo stesso Luciano che aveva mollato già le redini era tornato in plancia nel 2018 quando le perdite erano arrivate quasi a 200 milioni di euro. La fuga dalle responsabilità non rende giustizia alla figura di un imprenditore che ha fatto storia.


Al culmine del successo la famiglia era stata raccontata come il sogno americano in salsa trevigiana che nasce con il boom postbellico


Il successo è come sempre un insieme di fortuna e virtù, di occasioni e intuizioni. Due sono le innovazioni dirompenti: il colore e la distribuzione. Nei negozi i pullover erano ancora rigorosamente grigi, blu e bordeaux mentre i figli del baby boom avevano fame di colori. La rete di vendita in genere era basata sul possesso diretto o sul franchising, novità introdotta dagli americani. Luciano cambia le regole del gioco. “Tu compri solo da noi e ti tieni i profitti”, dice a Piero Marchiorello che nel 1965 apre a Belluno il primo negozio con il marchio My Market. Funziona e il modello sarà replicato. L’avventura imprenditoriale si può dividere in tre fasi: quella eroica che termina nel 1982 quando viene pubblicato il primo bilancio del gruppo, dal quale emerge che le vendite nei cinque anni precedenti sono aumentate del 600 per cento; segue l’èra dell’immagine globale che coincide con il sodalizio tra Oliviero Toscani, uno dei maggiori talenti della comunicazione, e Luciano Benetton, “il più grande venditore della nostra epoca” come lo definì Armand Hammer, il vecchio petroliere americano amico di Lenin; infine la diversificazione voluta da Gilberto che a metà degli anni 90 avrà già ridotto il tessile e l’abbigliamento a una frazione del fatturato totale.

Per la stampa americana i Benetton sono stati i McDonald dell’abbigliamento. Ci sono somiglianze, ma anche molte differenze, la più evidente è il sistema distributivo, l’altra è il rifiuto dell’uniformità che per i fratelli diventati re del fast food fu la chiave del successo (lo stesso hamburger e le stesse patatine ovunque negli States e nel mondo). La terza diversità è che, dietro la straordinaria capacità mercantile, i Benetton hanno sempre curato la produzione. La fabbrica aperta nel 1968 e progettata da Tobia Scarpa figlio dell’archistar Carlo allievo di Frank Lloyd Wright, è un’icona del gruppo. Negli anni 70, gli anni di piombo, sono già i maggiori consumatori di lana al mondo, ma fanno del tutto perché resti un segreto. Comincia anche una espansione fuori dai tradizionali maglioni. Per la Francia viene creata Sisley, in Scozia viene comprata Hogg (prodotti di qualità anche se old fashioned), poi il 50 per cento di Fiorucci e ancora il Calzaturificio di Varese. Arrivano in seguito le attrezzature sportive soprattutto per lo sci e la montagna. Luciano sa bene che il vero successo si misura a New York, ma la competizione è troppo dura, il consumatore è diverso da quello europeo. Soprattutto, spiega, “serve un’immagine globale”.

La fortuna ha il volto della principessa del Galles: la giovane Diana Spencer è un’assidua frequentatrice e una cliente affezionata nel negozio aperto da Benetton a Londra. I tabloid britannici la fotografano con indosso i maglioncini colorati e davanti alle vetrine. Si parla di un “fattore D.”, tuttavia bisogna trasformare il caso in necessità. E a questo penserà Oliviero Toscani. Lo introduce Elio Fiorucci, ma il fotografo ha già stupito e scandalizzato con la campagna per i jeans Jesus, fotografando lo scultoreo fondoschiena della sua fidanzata. L’immagine, e ancor più lo slogan, “Chi mi ama mi segua”, scatena le ire della Curia, ma solletica l’interesse di Luciano che gli chiede di curare la campagna per la primavera 1984. Nasce “All the colors of the world”, bambini di diverse razze e paesi che ridono insieme vestiti nei colori di Benetton. Ben più di un marchio, un simbolo, anzi una visione del mondo. “Benetton non è un prodotto, è un concetto”, ripete Luciano diventato nel frattempo un protagonista del jet set. Lasciata la moglie Maria Teresa Maestri con la quale aveva avuto quattro figli, comincia una relazione con Marina Salamon di vent’anni più giovane. Tra tira e molla nascerà Brando. Arriva anche la politica e un breve passaggio al Senato con il Partito repubblicano: se ne va dopo due anni nel 1994 quando scende in campo Berlusconi che non ama e non è riamato.


La divisione del lavoro tra Giuliana, Carlo, Gilberto e Luciano rimase invariata nel passaggio dal laboratorio artigianale alla piramide industriale


E’ un crescendo d’immagine pompata da Toscani e di immagini sempre più provocatorie. Il bacio tra un prete e una suora. La maternità nera con un bebè bianco al seno di una donna di colore scatena un putiferio negli Stati Uniti. Baby Giusy con il cordone ombelicale ancora attaccato. Luciano nudo per pubblicizzare il riciclaggio dell’usato a favore dei paesi poveri. “Il soldato conosciuto”: i pantaloni e la maglietta insanguinati di un serbo ucciso. Corleone. I condannati a morte che hanno un impatto terribile sul mercato americano. Il legame tra Luciano e Oliviero è così stretto da trasformarsi in simbiosi intellettuale. Ciò crea problemi in famiglia, soprattutto in Gilberto il quale pensa sia arrivato il tempo di varcare i vecchi confini e dare al gruppo una struttura più matura e più stabilizzata. Mollando anche la Formula 1 che ha pure contribuito a diffondere il global brand mietendo successi soprattutto con Michael Schumacher lanciato da Flavio Briatore. Nonostante due titoli mondiali, anche per il Grand Prix giunge la fine nel fatidico 2000. La scuderia viene venduta a Renault e Gilberto prende il potere. Al passaggio del secolo passa pure la vecchia Benetton.

Da tempo l’uomo dei conti era convinto che stavano diventando troppo grandi; mentre maglioni, jeans, scarpe stavano diventando tutti troppo stretti. Fin dai primi anni 80 comincia la diversificazione usando le holding di famiglia: Invep, o InFactory, joint venture con Bnl per operare nella finanza e nel leasing. Alcune attività, come i marchi sportivi (da Nordica a Rollerblade a Prince), rivelatisi poi una delusione, fanno capo a questa struttura parallela. La quotazione del 20 per cento alla borsa di Milano, nel 1986, spinge a razionalizzare una catena di comando troppo lunga. Nel 1987 Benetton prova ad acquistare la Lanerossi, sua principale fornitrice, si scontra con Marzotto e la spunta l’Eni che poi se ne disferà. Quando, tra il ‘93 e il ‘94, Berlusconi, pressato dalle banche, vende grandi magazzini e supermercati, Gilberto prende il 50 per cento di Euromercato. Ma la grande occasione si presenta con le privatizzazioni. Arriva Autogrill, arriva Ciao, arrivano gli aeroporti e, infine, il boccone più grosso (e più amaro): Autostrade. Ormai si è creato uno dei maggiori conglomerati italiani con finanza, distribuzione, servizi, infrastrutture, palazzi, fattorie, allevamenti di pecore, pascoli in Patagonia (fonte di liti con gli indiani Mapuche), oltre 130 imprese fanno capo a Edizione la cassaforte dei quattro fratelli. L’abbigliamento non è che un ricordo mantenuto in vita bon gré mal gré, insidiato da una concorrenza sempre più forte da parte di catene americane come Gap o Esprit che hanno sfondato a Londra e Parigi, della spagnola Zara o della svedese Hennes & Mauritz, che attaccano direttamente in Italia.


La grande occasione delle privatizzazioni. Arrivano Autogrill, Ciao, gli aeroporti e, infine, il boccone più grosso (e più amaro): Autostrade


Quando il 14 agosto 2018 crolla il viadotto sul Polcevera e muoiono 43 persone, la famiglia era a Cortina per festeggiare il Ferragosto. Nessuno si è mosso. Più che a una gaffe tutti hanno pensato a un terribile segno di colpevole indifferenza. Luciano, che si era ritirato nel 2006, con uno scatto d’orgoglio vuole riprendere in mano il timone. In un’intervista nel 2019 definisce la disgrazia “imprevedibile e inevitabile” e si lamenta di aver ricevuto “accuse e odio”. Difende la famiglia: “Non siamo né papponi di Stato né razza padrona”, la butta in politica: “Qualcuno aveva interesse ad attaccare la politica dei precedenti governi e qualcuno, come appunto il Renzo manzoniano, magari ha creduto davvero che avessimo delle colpe e delle responsabilità”. E aggiunge: “Come imprenditore rispetto e chiedo rispetto da tutti i governi. Io sono stato, molti anni fa, nel Partito repubblicano e rimango fedele a me stesso. In quelle forme e in quei limiti io, certamente, sono un uomo di sinistra”. Gli attacchi da destra e dai populisti guidati dai Cinque stelle distillavano in effetti odio, revanscismo, disprezzo, ma i Benetton hanno mancato quantomeno di sensibilità. E questa volta non potevano dare la colpa a un errore di comunicazione o gettare tutto sulle spalle del capo azienda Giovanni Castellucci. Certo la destra non gli è mai stata amica, tuttavia la reazione di Luciano diventa un boomerang. E il suo addio dalle colonne del Corsera sembra una mesta ritirata.


Dopo la catastrofe del viadotto, gli attacchi da destra e dai populisti stillava revanscismo, ma i Benetton hanno mancato di sensibilità


La vendita di Autostrade per l’Italia alla Cdp più i fondi Blackstone e Macquarie frutta oltre nove miliardi di euro. Restano in Atlantia che oggi si chiama Mundys alcune autostrade del nord Italia e quelle straniere, a cominciare dalle spagnola di Abertis società alla quale fa la guardia Florentino Perez, il costruttore proprietario del Real Madrid. I rapporti, tempestosi per anni, sembrano più sereni. Autogrill si è fusa con la svizzera Dufry rinominata Avolta. Per i Benetton si profila un futuro finanziario, un po’ come la Exor di John Elkann. Alla presidenza di Edizione è arrivato Alessandro, lo sportivo, il flamboyant, l’ex marito della campionessa di sci Deborah Compagnoni con la quale ha tre figli. Ha da poco compiuto 60 anni e a questo punto è l’arbitro tra i quattro rami della famiglia che si dividono in parti eguali la proprietà utilizzando quattro casseforti: Evoluzione che fa capo a Giuliana, Proposta agli eredi di Carlo, Regia per la famiglia di Gilberto e Ricerca di Luciano. Edizione ha chiuso il 2022 con ricavi di 8,4 miliardi di euro (ultimo bilancio consolidato) tra infrastrutture (autostrade, aeroporti come Roma e Nizza, stazioni), aziende agricole (in Italia Maccarese, grandi proprietà in Patagonia), ristorazione, finanza (partecipazioni in Generali, Mediobanca, Pirelli, Rcs, Caltagirone), tessile con Benetton. La capogruppo si articola in sette holding una per ogni ramo di attività. Nel cda come amministratori ci sono Christian figlio di Carlo, Franca e Carlo Bertagnin, due figli di Giuliana, Ermanno Boffa marito di Sabrina figlia di Gilberto. La seconda generazione ha ben 14 membri, ciascuno con la propria prole. Le divergenze che dagli anni 90 hanno diviso Luciano e Gilberto si riproporranno anche tra i loro eredi? Certo, non sono mai rose e fiori come si è visto nelle maggiori famiglie del capitalismo italiano. Ormai da quasi un secolo si discute sulla separazione tra proprietà e gestione per governare al meglio le grandi imprese. Ma la public company non è un sistema esclusivo nemmeno in America dove alcuni dei più grandi gruppi (Wal-Mart, Cargill, Mars, Fidelity, solo per fare qualche nome), non solo sono familiari, ma neppure quotati in borsa. Più che ai modelli, insomma, bisogna sempre guardare alla realtà.

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