L’ebraismo, l’altra radice dell’occidente

Si avvicina la festa di Shavuot che ricorda la consegna delle Tavole della Legge a Mosè. Rileggere la Bibbia per coglierne la modernità: testi che parlano ancora oggi, a chi sa ascoltarli, di libertà, uguaglianza e giustizia

Passata la Pasqua, siamo in un periodo tra due festività ebraiche. In queste settimane si contano i giorni che culmineranno, più o meno negli stessi giorni della Pentecoste cristiana, con la festa di Shavuot che ricorda la consegna delle Tavole della Legge a Mosè e al popolo ebraico ai piedi del monte Sinai. La mia professoressa di letteratura italiana al liceo ci ripeteva che non possiamo non dirci cristiani. Sollevava abbastanza sconcerto tra gli studenti della scuola della Comunità ebraica, ma citando Benedetto Croce voleva spiegarci che in quanto italiani eravamo inevitabilmente immersi in secoli di cultura cristiana e che fosse meglio per noi capirlo e comprenderla. Per questo, oltre che per apprezzare i capolavori dell’arte romanica, rinascimentale e barocca, ci portava a vedere le chiese durante le gite di classe. Quando pochi anni dopo hanno iniziato a parlare delle radici giudaico cristiane dell’Europa non fu per noi una sorpresa. Fu però deludente vedere che quella ebraica sembrava essere citata più come una sorta di riparazione per le persecuzioni subite e al limite per un tardivo riconoscimento del fatto che Gesù fosse nato, avesse vissuto e fosse morto da ebreo. Si tendeva a non vedere – tranne che in alcune pubblicazioni, certo non vendute negli autogrill o in fila al supermercato, come per esempio il volume di Leo Baeck, “Il Vangelo: un documento ebraico”, ripubblicato da Giuntina nel 2004, o quello di Daniel Boyarin, “Il Vangelo ebraico: le vere origini del cristianesimo”, edito da Castelvecchi nel 2012 – quanto l’insegnamento stesso di Gesù non fosse spiegabile al di fuori della tradizione ebraica.

Nel dibattito pubblico, mentre imperversano nuovamente temi antisemiti e antigiudaici (come quello sul Dio biblico vendicativo contrapposto al Dio dell’amore neotestamentario), tuttora mi sembra manchi un pieno riconoscimento del contributo dato dalla tradizione ebraica nello sviluppo della società e del pensiero occidentale, non solo e non tanto per quanto singoli ebrei abbiano fatto concretamente, ma per le idee che direttamente l’ebraismo ha dato. Si citano spesso ebrei famosi, che nei vari campi hanno portato innovazione, ma si tende a omettere le idee stesse proposte dall’ebraismo. Anzi, sembra che Sigmund Freud, Albert Einstein e prima di loro Baruch Spinoza vengano proposti come modello di quanto gli ebrei possano dare quando sembrano discostarsi dall’ebraismo. Per esempio, Freud stesso aveva capito il pericolo che la psicoanalisi potesse essere percepita come una scienza ‘ebraica’ e ne dissimulò abilmente le origini. Come se l’ebraismo fosse una zavorra. Eppure, se si prova a leggere la Bibbia e i commentari ebraici non si può non cogliere la modernità del messaggio proposto. Questi testi parlano ancora oggi, a chi sa ascoltarli, di libertà, uguaglianza e giustizia.


L’obiettivo più volte ripetuto nella narrazione biblica e nei discorsi finali di Mosè – e su questo premevano le lezioni del rabbino capo d’Inghilterra, Rav Jonathan Sacks – è quello di costruire una società giusta, nella quale vi sia una responsabilità reciproca e un’attenzione particolare ai deboli


Tornando alle festività ebraiche di questo periodo, le tavole della Legge sul Sinai vengono date dopo che gli ebrei sono usciti dall’Egitto. Questi due eventi insieme costituiscono la nascita del popolo ebraico. Dalla superpotenza dell’epoca, l’Egitto dei faraoni, scappa un eterogeneo gruppo di schiavi. E nei libri dedicati alla peregrinazione nel deserto e nei discorsi pronunciati dal leader Mosè, la narrazione si concentra su alcuni temi. Innanzitutto la libertà contrapposta alla precedente condizione di schiavitù. Notoriamente, la libertà proposta dalla Bibbia non è senza freni, non è “faccio quello che mi pare”, ma nasce dall’accettazione e dall’applicazione della Legge. La legge crea la libertà per gli schiavi in fuga. Una legge che vale per tutti. Non è previsto un re che possa dire “la legge sono io”, ma tutti gli uomini, anche il più importante tra di loro, vi sono sottoposti allo stesso modo. Anzi, più la persona riveste un ruolo di primo piano e più è chiamato al rispetto rigoroso; Mosè per primo ne fa le spese e non viene fatto entrare nella terra di Israele per non aver eseguito in modo preciso alcuni ordini divini. L’obiettivo più volte ripetuto nella narrazione biblica e nei discorsi finali di Mosè – e su questo premevano particolarmente le lezioni del rabbino capo d’Inghilterra e membro della camera dei Lords, Rav Jonathan Sacks – è quello di costruire una società giusta, nella quale vi sia una responsabilità reciproca e un’attenzione particolare ai deboli. In questo ambito rientrano le prescrizioni relative agli stranieri, alle vedove, ai poveri, ai non vedenti. Di fatto, la proposta è di centottanta gradi opposta alla società egizia, basata sulla schiavitù e con un solo uomo all’apice. In Egitto, solo il Faraone è figlio degli dei, nella Bibbia tutti gli uomini sono uguali poiché ugualmente creati a immagine della divinità. L’uguaglianza tra gli uomini e la libertà rivendicata per tutti erano messaggi difficilmente accettabili anche per le polis greche e l’antica Roma. Per Platone gli uomini non sono uguali tra loro ed è nota la sua immagine dei governanti plasmati con l’oro, i soldati con l’argento, gli artigiani con il rame. Anche per Aristotele gli uomini sono intrinsecamente disuguali e ne discende una differente concezione di giustizia. Contrapponendosi a tutte le società dell’epoca, la Bibbia di fatto propone l’abolizione della schiavitù. E’ previsto che in situazioni di estrema povertà la persona possa vendersi come schiavo, ma questa condizione cessa giuridicamente dopo sette anni e inesorabilmente e senza eccezioni in occasione del Giubileo. La schiavitù diventa pertanto temporanea e non è più una condizione esistenziale. La rivoluzione proposta avviene inoltre in modo graduale, una soluzione riformista e non massimalista, potremmo dire oggi. Il messaggio resta rivoluzionario; nessuno è schiavo per sempre, prima o poi tutti diventano liberi.


“Proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti” è il passo del Levitico inciso sulla campana di Philadelphia, la Liberty Bell, il simbolo della Rivoluzione americana. Non a caso, nella guerra di secessione, gli schiavi afroamericani non presero frasi da Platone e Aristotele per comporre canzoni di libertà e nemmeno da Sant’Agostino, ma misero in musica versetti tratti dalla Bibbia ebraica. La concezione moderna dei diritti umani non era forse nella mente di Mosè, ma il seme è stato piantato allora. E non era il solo. Dalla lettura della Bibbia, il rabbino Sacks, citando la tradizione interpretativa, osserva che il testo parla con tre differenti voci morali. Sebbene a tutti venga richiesta l’osservanza della Legge, vi è una differente voce morale per i sacerdoti, i re e i profeti. Per Sacks, i sacerdoti usano la capacità di distinguere e con questa cercano l’ordine. I profeti parlano tramite l’empatia per il singolo. I re ricorrono al linguaggio della saggezza. Pertanto, utilizzando codici differenti, sacerdoti, profeti e re nella Bibbia sono spesso in conflitto tra loro.

Questo sguardo sembra richiamare e pertanto anticipare l’interpretazione di Isaiah Berlin – per tanti anni docente a Oxford e negli ultimi anni della sua vita amico del rabbino Sacks – sull’importanza di Machiavelli. Il celebre autore fiorentino – osservando che morale cristiana e morale del principe fossero inconciliabili – suggeriva a Berlin l’idea che non tutti i valori supremi perseguiti dall’umanità fossero necessariamente compatibili tra loro. Questa consapevolezza minava in Berlin la sua “precedente convinzione che non potesse esservi conflitto tra fini veri, tra risposte vere ai problemi centrali della vita”. Col riconoscimento del legno storto dell’umanità, dal quale non si possa ricavare nulla di diritto (immagine presa da Immanuel Kant, ma che sua volta forse aveva tratto dal testo biblico di Qohelet, l’Ecclesiaste, dove è scritto “ciò che è storto non può essere raddrizzato”), a Berlin sembrava di aver trovato una forte risposta a quanti proponevano fini da dover essere universalmente e contemporaneamente accettati, come il marxismo, in virtù dei quali qualunque mezzo e qualunque prezzo fossero giustificati. Per Berlin, Machiavelli (insieme ad altri autori cari a Berlin come Giambattista Vico e Johann Gottfried Herder) aveva instillato idee che avrebbero portato secoli dopo al policentrismo storico delle culture e dei valori umani. Una concezione per la quale sono molti e differenti i fini cui gli uomini possono aspirare restando pienamente razionali, pienamente uomini. Partendo dal Sinai siamo forse arrivati al relativismo?


La concezione moderna dei diritti umani non era forse nella mente di Mosè, ma il seme è stato piantato allora. La lezione di Isaiah Berlin. Oltre alla pace della visione profetica dell’era messianica, per la tradizione ebraica bisogna darsi delle regole per ricercare un’amichevole coesistenza con i popoli con cui non si è d’accordo


Come ha notato Massimo Giuliani, docente di Pensiero ebraico all’Università di Trento, rav Sacks, alla luce di un famoso midrash (racconto orale della tradizione ebraica), spiegava che ebraicamente “la parola divina viene dal Cielo ma è interpretata sulla terra” e noi, della verità infinita, non possiamo che avere comprensioni finite, limitate e dunque plurali, “l’ebraismo crede in un solo Dio, ma non in una sola via per la salvezza”. A questo proposito – in un’orazione tenuta proprio in memoria di Berlin e nella sinagoga frequentata dal professore inglese – rav Sacks citava il rabbino Avraham Kook: “Il Signore benedetto è stato benevolo con il suo mondo allorché non mise tutti i talenti in un solo luogo, in un unico uomo, in un’unica nazione, in un’unica generazione o addirittura in un unico mondo”.

Altro che relativismo. Forti delle proprie convinzioni, ma senza alcuna pretesa di poterle o di doverle imporre agli altri popoli, gli ebrei hanno attraversato la storia. Berlin stesso negava che questo fosse relativismo. “I membri di una cultura possono, grazie all’immaginazione, capire i valori, gli ideali, le forme di vita di un’altra cultura o società, anche remotissima nel tempo e nello spazio. Potranno giudicare inaccettabili questi valori, ma con una sufficiente apertura mentale possono capire come un essere umano sia tale a pieno titolo, simile a noi e accessibile a noi, anche se vive in un quadro di valori fortemente diversi”. E Berlin aggiungeva “noi siamo liberi di criticare i valori di altre culture, liberi di condannarli, ma non possiamo fingere di non comprenderli”. Anzi, semmai consapevoli di queste differenze, è poi possibile cercare quei compromessi minimi di terreno comune per ridurre la conflittualità. Un concetto che a rav Sacks ricordava l’insegnamento della tradizione ebraica dei darchei shalom: oltre alla pace della visione profetica dell’era messianica, per la tradizione ebraica bisogna darsi delle regole per ricercare un’amichevole coesistenza con i popoli con cui non si è d’accordo. Anche Berlin sembra quindi essere debitore all’ebraismo.

Eppure, l’ebraismo è portatore anche della speranza di una futura epoca messianica nella quale si avrà un mondo perfetto, cosa che Berlin esclude possa accadere per la non conciliabilità dei diversi fini che legittimamente gli uomini perseguono. Rav Sacks propone due possibili soluzioni a questa contraddizione. La prima è che Berlin aiuti a capire perché alla domanda “il Messia è già arrivato?” gli ebrei rispondano “non ancora”. La seconda è quella di considerare la definizione data da un rabbino del Terzo secolo, mille e ottocento anni fa: non vi sarà alcuna trasformazione della natura umana, la sola differenza tra la nostra vita e l’epoca messianica è che allora gli ebrei non vivranno più sottomessi agli altri popoli, ma torneranno in Israele e vivranno in pace coi loro vicini. E per questa pace – nonostante i tunnel del terrore di Hamas e la ferocia del tagliagole Yahia Sinwar e della sua banda di stupratori di massa – tuttora gli ebrei di tutto il mondo stanno pregando.

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