La lezione di democrazia del premier inglese Rishi Sunak

A Londra si prendono scelte forti, con discorsi brevi, sotto la pioggia. Il primo ministro annuncia nuove elezioni che sa che perderà, ma è così che funziona il ricambio democratico dei governi. Da noi, invece, si fanno processi risibili. Confronti

Talking in the rain. La democrazia è il primo ministro conservatore che esce dall’appartamento del numero 10 di Downing Street, prende posto dietro a un piccolo podio sotto la pioggia battente, fa un discorso inferiore ai dieci minuti in cui scioglie il Parlamento e se la prende in serio linguaggio politico con il leader laburista che lo sfida, rivendica quel che ha fatto e chiede il consenso a continuare, intanto l’audio è severamente disturbato dalla musica di un concerto, di un rave, le gocce cadono ma che fa, il primo ministro se ne infischia, finisce il suo discorso nello strepito e torna tutto bagnato nell’appartamento apprestandosi con ogni verosimiglianza a perdere le elezioni (c’è il video). La politica riguarda la sicurezza, il sistema sanitario, gli investimenti e il lavoro, l’inflazione, la protezione sociale, i diritti, la guerra e la pace, la difesa dei confini: tutti temi perfettamente incastonati nel discorso di ieri di Rishi Sunak, punto e basta. Quando spunta una questione di reprensibilità dei comportamenti pubblici, se ne occupano commissioni parlamentari che sono capaci di suggerire misure draconiane e di far fuori primi ministri che hanno maggioranze schiaccianti, come per esempio Boris Johnson. Il ricambio si decide nel sistema parlamentare, tra i partiti, sotto la sorveglianza dei media e del “pubblico”, perché così e con questa modestia lessicale viene evocato il “popolo” o la “nazione”, non c’è l’ombra di un giudice o di un procuratore o di un poliziotto che possa scardinare autonomia e capacità decisionale delle istituzioni elettive.

Lo stato di polizia è invece quando un ministro della Difesa anticipa che ci saranno inchieste a sfondo politico in vista delle elezioni europee, dopo brevi polemiche sulle sue parole seguono puntualmente novemila pagine di accuse, arresti e domiciliari a raffica, intercettazioni mal trascritte, caccia a finanziamenti politici fatturati e tracciati, e vengono imputati reati la cui configurazione si presenta risibilmente astratta. Un ceto amministrativo eroga legittime concessioni per attività economiche, dispone misure urbanistiche, media tra interessi in conflitto, autorizza l’apertura di supermercati, appalta grandi lavori con fondi europei, coltiva relazioni con gruppi che dispongono di influenza elettorale tra compaesani, dopodiché deve rispondere di corruzione, voto di scambio e in qualche caso anche di favoreggiamento della mafia. Qui non è più questione di malagiustizia, sarebbe in fondo il male minore, qui è in atto un processo permanente alla politica che mette in stato di decomposizione la democrazia.

L’immagine conta. Una democrazia vive anche di fiducia, di cordialità, di apertura, di un cerimoniale fatto di eleganza e sprezzatura, di rituali carichi di rispetto e irriverenza ma in cui sono assenti il rancore, il disprezzo, il sospetto permanente. Sunak perderà, secondo tutti i sondaggi, ma è solo la fine di un lungo ciclo di governo, con tutti i suoi errori e le sue follie politiche, che inaugura un nuovo ciclo destinato anch’esso a finire prima o poi. Il reciproco riconoscimento di valori è una lezione antica mai imparata. L’assetto istituzionale non è minato alla radice dall’idea del complotto, della trama, dell’irriducibilità alla democrazia dei rappresentanti del pubblico.

Sono trent’anni che un generale dei carabinieri che ha arrestato il capo dei corleonesi e ha inferto colpi definitivi alla criminalità organizzata va sotto accusa, assolto e riassolto, per essere un mafioso e uno stragista. Si passa di processo in processo, di accusa in accusa, e a nulla valgono perfino le assoluzioni, i proscioglimenti, le archiviazioni. Le riforme della giustizia sono considerate sempre un aiuto al malaffare, si sbandiera la Costituzione per impedire cambiamenti costituzionali ordinari, misure di contenimento del giustizialismo più retrivo, abbiamo vissuto per anni di origliamenti, pettegolezzi e pedinamenti in omaggio al comune senso del pudore spacciato per sicurezza dello stato, abbiamo inventato e reinventato simboli perenni di antistato, di doppio stato, stiamo ancora qui che attribuiamo ai piani di Licio Gelli leggi sacrosante come la separazione delle carriere, difese da Giovanni Falcone e da sempre presenti nel quadro legislativo possibile di forze democratiche e della stessa sinistra. Ci vuole una decisione forte, con un discorso breve, magari sotto la pioggia battente e con una musica a palla che disturba, per ripristinare il senso della convivenza democratica dentro istituti di diritto e di civiltà messi in comune.

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  • Giuliano Ferrara
    Fondatore
  • “Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.

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