Il boom prima del botto. Le tristi prospettive dell’industria musicale

Superfans per musica super premium. Un rapporto di Goldman Sachs che definisce il divario sempre più ampio tra ricchi e poveri e tra artisti e pubblico

Il gruppo di investimenti ì e servizi finanziari Goldman Sachs ha appena pubblicato il suo ultimo rapporto “Music In The Air” dedicato alla salute economica e al futuro del business musicale. Contiene i ragionamenti che si può aspettare da un gruppo di investment banking: sottolineare gli incrementi, denunciare le stagnazioni e ruggire quando s’intuiscono nuovi soldi in arrivo. Schematismi aridi, per non dire cinici. Ma si può far finta che la musica nell’aria oggi non sia questo? Solo se si sceglie di viverla come una dimensione esclusivamente artistica, con tutti i rischi connessi. Ma la musica, nei secoli dei secoli, per tante persone è stato soprattutto un modo di farsi una vita.




Il rapporto studia i diversi piani di produzione economica della musica: quella registrata, nei diversi formati di consumo, l’editoria musicale e poi la musica dal vivo. Il tono generale del resoconto è frizzante: le cose, dice Goldman Sachs, vanno bene e le stime possono essere riviste al rialzo. Apparentemente stiamo entrando in “una nuova era di miglioramento della monetizzazione musicale”: le prospettive indicano che i numeri degli abbonamenti allo streaming musicale aumenteranno, in particolare nei nuovi mercati, che ora si stanno riversando in massa verso questa modalità di utilizzo. E che i prezzi degli stessi abbonamenti continueranno a crescere mentre prenderà corpo un concetto rafforzatosi negli ultimi tempi, fino a occupare una posizione cardine di mercato: il bacino dei “superfans”, quelli disposti a spendere senza limite per godere del meglio del meglio dei consumi musicali, a uso dei quali si vanno approntando menu sempre più succulenti di privilegiati piani di consumo premium e super premium, i cui costi arrivano alle stelle. E’ un risvolto interessante: alcune antiche concezioni si sono ribaltate, passando dalla spinta verso il basso dei consumi, che promuoveva e promulgava una “musica per tutti”, a una concezione spudoratamente elitaria, di una musica per pochi o pochissimi. Ma ci torniamo. Perché intanto i numeri generali parlano di crescita considerevole delle dimensioni finanziare del settore, con un incremento che supera il 10 percento nel Regno Unito e arriva all’8 per cento negli Stati Uniti, seppellendo gli allarmanti segnali negativi che avevano contraddistinto l’inizio del millennio, fino al 2014, quando ha preso forza l’inversione di tendenza. E’ stata la finestra temporale necessaria a far digerire al mercato la rivoluzione copernicana della musica, con la morte della sua veicolazione fisica – vinile e cd – e l’avvento dello streaming orizzontale, coinciso con la guerra stravinta contro la pirateria e con l’adeguamento dei consumatori a una percezione diversa del rapporto con la musica: su Spotify e su iTunes sei padrone di tutto e di niente, non hai nulla da toccare, ma tutto da ascoltare (il rovescio della medaglia sono i corposi licenziamenti nell’industria musicale, laddove la conversione ha meno bisogno del fattore umano e comunque in ambiti nuovi – sebbene, come piace dire ai supermanager, “quando la marea sale, tutte le barche si alzano”).



Eppure in questa pirotecnia di conteggi, basta guardare sotto la superficie per imbattersi in risultanze poco entusiasmanti: a meno di non essere riusciti a collocare il proprio nome nella striminzita lista delle star accertate, vivere di musica è oggi un’utopia, in particolare se la propria attività preferenziale è dedicarsi alla registrazione delle proprie produzioni. Spotify ha di recente pubblicato un suo rapporto per contrastare le indiscrezioni su quanto si guadagni di royalties pubblicando sulla sua piattaforma. Sarebbero ora 1.250 gli artisti/gruppi capaci di generare utili annuali per un milione di dollari o più, rispetto ai 460 del 2017 (cifre molto lorde, da cui detrarre le spettanze delle etichette discografiche di riferimento, i servizi e le tassazioni). A seguire 11.600 artisti/gruppi nel 2023 avrebbero ricevuto da 100 mila dollari in su da Spotify per la loro partecipazione allo streaming (erano 4.300 nel 2017). E 66.000 (23.400 nel 2017) sono quelli che hanno guadagnato da 10 a 90 mila dollari. Ovviamente le piattaforme sono tante altre (sigle come Tencent in Cina totalizzano più abbonati di Spotify e iTunes messi insieme) ed è realistico considerare queste cifre come all’incirca un quarto del totale introitabile dalle piattaforme. Un giro di conti? Un buon artista/band può incassare 200 mila dollari da Spotify e un totale attorno a 700 mila da tutto il mondo dello streaming. Da questa cifra è realistico ipotizzare un guadagno annuo netto attorno a 250 mila dollari. Se la band è composta da cinque o sei elementi, sono giusto i soldi per vivere.




E comunque “Music in the Air” mostra con chiarezza quale sia oggi l’intenzione dominante dei grandi produttori musicali: investire nei prossimi anni più risorse per aumentare la quota di artisti locali e di musica locale per i nuovi mercati, attraverso accordi di distribuzione con etichette locali e acquisizioni. Nel comparto la globalizzazione è un trend del passato e comunque circoscritto alle sole superstar. Poi c’è il mondo della musica dal vivo. Il rapporto Goldman Sachs ripete un adagio ormai accertato: i ricchi sono destinati a essere sempre più ricchi, ma per i poveri sono tempi duri. Se è ormai futile tenere il conto dei guadagni di Taylor Swift, si può notare che una buona band riceve un cachet attorno ai 5 mila dollari per entrare a far parte del cartellone di un grande festival, cifra che nel computo effettuato dagli esperti si riduce fino a meno della decima parte se si isola il guadagno netto. Senza contare che lo stesso business dei festival è ormai in piena inflazione e in precipitosa ritirata, mentre sempre più grama è la vita dei piccoli club.




Qui però arriva lo scatto prodotto dagli analisti della finanziaria, osservando la riconfigurazione del mercato musicale: l’avvento dei citati superfans, che non sarebbero altro che l’effetto, a fini commerciali, di una gerarchizzazione sempre più ripida tra i consumatori di musica. Ci sono i “normali” che non hanno intenzione di sabotare il bilancio familiare per accedere a un ascolto in altissima definizione dei loro album preferiti, o per guadagnarsi una posizione imperiale nel palchetto che si affaccia sulla nuca dell’artista prediletto in concerto. Ma c’è un numero crescente di persone, in particolare nei nuovi mercati – scommessa del futuro, perché vanno conquistati, colonizzati, educati – che ne fanno una mera questione di status e magari qualche volta anche d’irrefrenabile passione. Pronti a spendere di più e anche molto di più per sentirsi vicinissimi al proprio idolo, collezionarne ogni possibile edizione numerata a prezzi proibitivi, dare alla propria super-autoradio tutta la qualità che merita. Fanatici? Spesso. Collezionisti con una vena di masochismo? C’è da pensarlo. Ma i superfans pronti a svuotarsi il borsellino per un’esperienza agli altri inaccessibile, sono l’estrema Thule del marketing musicale. Riscrivere il confine del desiderio, insomma. Accordare una specie di divismo di riporto, per prossimità alla star adorata. L’arroganza del portafoglio. Detto questo, il mondo musicale disegnato con slancio da Goldman e Sachs, ci piace poco. Pesa il baratro che divide ricchi e poveri, chi suona e chi ascolta, la palpabile sensazione di decadenza, girato l’angolo di questo boom. Il fatto è che la vecchia musica per come la conoscevamo nel Novecento è morta e sepolta. Bando ai romanticismi. Ma la sua insperata resurrezione ci ha consegnato però un nuovo mercato che somiglia più a un cinico money maker, che al sospirato redentore.

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