Sorrentino supera l’esame San Gennaro (se solo avesse una sceneggiatura)

In Parthenope è chiaro che le chiese, gli altari, i faraglioni e l’ampolla con il sangue di San Gennaro, e il tesoro del santo medesimo, affascinano il regista più delle persone

Il sacro e il profano. Il sangue di San Gennaro e certi loculi che tolgono il fiato a guardarli (non è più tempo di Grand Tour, quando gli scugnizzi venivano fotografati e comprati). Le ville con la terrazza sopra il mare, e un clone di Sophia Loren con l’assortimento di vizi che ogni napoletano al cinema prima è tenuto a deplorare: “Siete depressi e non lo sapete, vi vantate di essere furbi ma i disgraziati siete voi”. Gli amori poveri, quando si bacia senza denti. E la Grande Fusione: due famiglie assistono al pubblico accoppiamento dei rispettivi rampolli; bisogna garantire che non ci sia sangue estraneo. Sorrentino non si fa – e non ci fa – mancare nulla.

Da parto in acqua nasce Parthenope. Poi arriva il tempo delle vacanze interminabili e i primi baci (un triangolo, come in “Challengers” di Luca Guadagnino). Al centro Celeste Dalla Porta, bella e brava: purtroppo il copione, tra altri momenti di imbarazzante filosofia spicciola, le fa incontrare Gary Oldman che si presenta come John Cheever (proprio lo scrittore che ha sul comodino). Seguiamo la ragazza fino alla laurea. Relatore Silvio Orlando, caricatura del professore burbero che però dà la lode, e pure il bacio accademico.

In antropologia, che vuol dire “vedere il mondo”. Da Paolo Sorrentino, ormai una fede più che un regista, si imparano un sacco di cose. Ma è chiaro che le chiese, gli altari, i faraglioni – ripresi da una strana angolatura, non si somigliano tanto – e l’ampolla con il sangue di San Gennaro, e il tesoro del santo medesimo, affascinano il regista più delle persone. Sono raffinati esercizi di composizione. Ai fan piacciono. Noi facciamo un sogno: chissà che film ne uscirebbe, con una sceneggiatura adeguata. Tutti fumano (era l’epoca, ma non sembrano averne voglia) e di continuo si domandano “a cosa stai pensando?” (senza ricevere risposta, né dai giovani né dai vecchi).

Risponderebbe senza esitazioni il giovane Donald Trump che si controlla il ciuffo nei finestrini delle auto parcheggiate. Guai se gli amici, e soprattutto i nemici, lo vedono con i capelli fuori posto. Anche la madre, a tavola, sfoggia una cotonatura bionda alta venti centimetri. “The Apprentice” – era il titolo del programma tv di Trump, che cercava giovani manager di talento – racconta la formazione e la prime esperienze del giovanotto. Ora basta il cognome, ma negli anni 70 Trump voleva dire Elizabeth Trump, la ditta di famiglia: avevano palazzi a Brooklyn, nel Queens e a Staten Island, sotto inchiesta per discriminazione razziale verso gli inquilini afroamericani che non pagavano l’affitto. Linea difensiva di Trump padre: “Non sono razzista, ho un autista nero”.

Donald vuole conquistare il centro di Manhattan, e sceglie come mentore l’avvocato Roy Cohn – o forse è Cohn a scegliere l’allievo promettente. Quando capitava di andare a teatro, oltre che al cinema, Cohn era un personaggio di “Angels in America – Fantasia gay su temi nazionali”, scritta dal premio Pulitzer Tony Kushner. Nella miniserie Hbo, il ruolo toccò ad Al Pacino. Oggi è di Jeremy Strong, il Kendall Roy di “Succession”.

Cohn fece condannare i Rosenberg per spionaggio. Poi aiutò il senatore McCarthy nella sua caccia ai comunisti (un pezzo di Hollywood si trovò senza lavoro, per difendersi qualcuno denunciava gli amici). Ali Abbasi è un regista iraniano naturalizzato danese, forse non ha pensato bene all’effetto del suo film: conquisterà i già convertiti, e non toglierà a Trump neanche un voto. I suoi seguaci lo amano per quel che è: uno che sempre attacca, che nega ogni accusa, che non ammette mai la sconfitta. Ha querelato: nessuno ha mai perso voti per aver sottovalutato gli elettori.

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