I no dei taxi che spiegano l’Italia

La domanda c’è, ed è in aumento, l’offerta no, ed è un problema per tutti. In un’estasi di autodistruzione, i tassisti hanno manifestato contro loro stessi e contro il loro futuro. Per capire il motivo seguire l’Italia del lusso

Con le proteste sotto a Palazzo Chigi, lasciato il sit-in nella vicina piazza San Silvestro, i tassisti organizzati nella manifestazione di ieri a Roma (ma ce ne sono state anche in altre grandi città, con l’eccezione di Bari, unica a essere tassisticamente pacificata) hanno attaccato e insultato il governo che più di tutti è stato vicino alle loro richieste e ha dato loro ascolto. Ma, in un’estasi di autodistruzione, hanno manifestato contro loro stessi e contro il loro futuro. La mobilità nelle grandi città è già stata trasformata e il processo continua e accelera, perché gli effetti della digitalizzazione, della connessione e della riorganizzazione dell’offerta pubblica di trasporto si stanno facendo sempre più forti. I tassisti, tranne qualche minima adesione a servizi accessibili attraverso app, compresa Uber, sono rimasti volontariamente fuori da tutte le innovazioni di rilievo o, appunto, le hanno più contrastate che adottate, anche con pratiche di squallido luddismo come la frequente invenzione estemporanea di danni ai sistemi di pagamento digitale. La rarefazione del servizio, coltivata per anni dalle varie organizzazioni del sindacalismo tassinaro attraverso i veti all’aumento delle licenze, ha precluso per sempre dal loro mercato una parte consistente di utenza, persone che si sono abituate a non salire mai su un taxi e che sono pronte a ricorrere a tante diverse soluzioni per muoversi in città e che hanno creato una rete familiare o amicale per attrezzarsi da sole. La mancanza cronica di taxi ha dato comunque uno spazio a quel poco che Uber può fare organizzando attraverso la sua piattaforma il servizio degli Ncc e si è creato un nuovo mercato, per quanto di nicchia (ma per i tassisti è una bella perdita, perché è la nicchia con maggiore capacità di spesa e frequenza di utilizzo, specialmente per tratte lunghe). Mentre l’offerta di trasporto con mezzi da attivare attraverso app sta crescendo, dai monopattini alle bici elettriche, dai piccoli scooter alle auto noleggiabili per spostamenti urbani e anche per incursioni fuori porta, e non può che migliorare, anche attraverso forme di selezione del mezzo più efficiente, in base alle preferenze di chi li usa.

E non è pensabile che ai nuovi grandi investimenti nella ricettività di lusso – le maggiori novità sono a Roma e a Milano – non si accompagni anche qualche decisione per rafforzare la capacità di dare servizi logistici a clienti molto sensibili alla qualità del trattamento durante il loro soggiorno. I gruppi che stanno investendo nella realizzazione di nuovi alberghi non potranno accettare che la loro clientela finisca strozzata nell’imbuto della fila dei taxi della stazione Termini a Roma o della stazione Centrale a Milano. Il prossimo passo, prevedibilmente e stante la condizione di mancanza cronica dei taxi, sarà l’organizzazione di servizi di navetta per i punti principali della città gestiti direttamente dall’albergo o da consorzi di alberghi, come sarebbe ragionevole in città spesso attraversate da grandi occasioni commerciali o fieristiche. Lo stesso trasporto pubblico locale, con tutte le sue ruggini e le sue lentezze, sta reagendo alla digitalizzazione e alla forza della connessione diffusa. Su gran parte dei mezzi pubblici si paga ormai in varie modalità digitali, dal cellulare alla carta di credito, e i movimenti di bus e metropolitane sono seguiti e resi prevedibili da più di una app, con la possibilità di organizzare gli spostamenti e ottimizzare i tempi. Nelle grandi città gli investimenti, anche con la lentezza organizzativa, arrivano prima o poi a qualche risultato. Si vede a Linate con la linea di metropolitana e, piano piano, a Roma con il miglioramento graduale dei collegamenti ferroviari tra Termini e Fiumicino. I tassisti si sono tenuti volontariamente fuori da tutto questo e ieri lo hanno mostrato con la maggiore ostentazione possibile, urlando contro non si sa chi e urlandosi addosso. Hanno reso rarefatto e residuale il loro servizio. Aumentando le licenze, sarebbe un piccolo esperimento di economia applicata, si potrebbe vedere, con ogni probabilità, un più che proporzionale aumento delle corse e dei ricavi. L’esperimento proposto, accettiamo scommesse, mostrerebbe che un servizio più moderno, accessibile, diffuso ed efficiente, garantirebbe più clientela. La scelta, però, è stata diversa, con l’arrocco nell’illusoria possibilità di chiudere la strada ai servizi alternativi. E con la custodia di quel presunto tesoretto costituito dalle licenze. Rese negoziabili e soggette a titoli di proprietà con un’evidente forzatura legale, mentre si nota sempre più spesso il fenomeno dell’affitto della licenza o di affidamento dell’auto con licenza ad altri guidatori, con utilizzo, sostanzialmente, di forza lavoro quasi dipendente. Arrocco e chiusura al mondo esterno sembrano studiati anche per tenere a distanza gli occhi del fisco. Con il rigetto vergognoso dell’intera categoria per la scelta opposta, ispirata a trasparenza e apertura, fatta dal tassista bolognese Roberto Mantovani (RedSox) espulso inopinatamente dalla sua cooperativa perché rendeva pubblici i suoi incassi quotidiani, mostrando la distanza clamorosa rispetto alle dichiarazioni medie.

Gli urli sotto a Palazzo Chigi possono infastidire chi aveva tentato il dialogo, ma non portano da nessuna parte né danno qualche possibilità di uscire dall’ingorgo creato dagli stessi tassisti.

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