Spettacolo emozionante, un grande direttore, adeguate le voci: “Tristano” a Palermo

La nuova produzione di Daniele Menghini al Teatro Massimo di Palermo trasforma l’opera di Wagner in un manifesto teatrale, con una regia innovativa e una direzione musicale brillante di Omer Meir Wellber

Il giorno è il regno dell’inganno. La notte, quello della verità. Il Tristan und Isolde del Massimo di Palermo, nuova produzione del giovin regista Daniele Menghini (da tenere d’occhio) parte da qui, ed è scontato, ma per muoversi in una direzione che invece scontata non è affatto. L’inizio sembra il più banale dei teatri nel teatro: retropalco a vista, sedie pronte per la compagnia, loro che arrivano un po’ annoiati alle prove per l’ennesimo Tristano. Ma man mano l’illusione prende il sopravvento, e nel secondo atto, l’atto notturno, l’atto dell’autenticità del sentimento, l’atto del duettone d’amore contro ogni ragionevolezza e convenzione, il ribaltamento è completo: la finzione diventa verità, e la verità finzione. Non è stato mai così vero che il teatro è il luogo dove tutto è finto ma niente è falso. E il teatro ha un nome: Shakespeare. Dunque, il lungo vaneggiamento dei due ebbri d’amore in costume elisabettiano intorno alla “e” che ne congiunge i nomi, la “süsse Wörtlein”, la soave paroletta, è accompagnato da Romeo, Giulietta, Amleto, Bottom. Nel finale, Isotta si spoglia delle sue gabbane windsoriane e scende in platea, abbandonando la sua realtà illusoria per l’illusione della realtà. Ma chi il teatro lo ama sopra ogni cosa lo sa, che la vita “vera” è su quel palco per chi ha il privilegio di salirci e anche per noi che si siamo davanti: e siamo emozionati e sì, commossi, a vederlo ribadire con tanta poetica potenza. Naturalmente poi nello spettacolo di Menghini e della sua squadra c’è anche molto altro, talvolta troppo (so’ ragazzi): un Cupido nudo (full frontal, per inciso) che evoca gli effetti devastanti di Eros, Melot che prende a pistolettate Tristan, Marke che gli passa i kleenex per togliersi il trucco, eccetera. Il paradosso è che un’opera che tutti hanno sempre considerato antiteatrale, a partire da Wagner che la chiama “Handlung”, azione, e non “Oper”, diventa un manifesto sulla bellezza utopistica ma alla fine redentrice del teatro. Spettacolo notevolissimo.

Poi per una volta regia e direzione vanno dalla stessa parte, invece di squartare lo spettatore portandolo ognuna dalla sua. Dal podio, anche Omer Meir Wellber, alla sua prova più convincente, davvero da grandissimo direttore, spiega che il Tristano è teatro: colori accesi, tempi spediti, niente filosofumo e molti contrasti. L’Orchestra suona benissimo, ma certamente non ha la densità e la profondità di qualche sua analoga tedesca. Wellber ne cava un Wagner limpido ma non leggero, terso, chiaro, mediterraneo, da tedesco in Grand Tour. Permettete la boutade: è un Wagner “simpatico”. E molto, molto ben realizzato. Anche dalla compagnia, alla fine, dominata da Nina Stemme che dà l’addio a Isolde in scena dopo decine, forse centinaia di recite. Ovvio che la conosca come le sue tasche. Ma, in eccellente forma vocale, ha ancora voglia di mettersi in gioco, di stupire e stupirci: vedi l’improvviso pianissimo stupefatto e stupefacente che lei e Wellber si inventano a “er sah in die Augen”, egli fissò i miei occhi, con conseguente commozione clamorosa anche da parte di chi di Tristani ne ha visti tanti, anzi troppi. Il resto è buono ma non eccelso: solidi la Brangäne di Violeta Urmana e il Kurwenal di Andrei Bondarenko, sempre autorevole ma stanco il Marke di René Pape (però ci sono, e si deve segnalarlo perché è più l’eccezione della regola, due ottimi comprimari: MiljenkoTurk-Melot e Andrea Schifaudo che fa sia il Marinaio che il Pastore). Lui, Michael Weinius, manca di fascino scenico e vocale, ma mostra una tenuta soddisfacente e qualche riuscito tentativo di cantare piano, per esempio all’attacco di “O sink hernieder”.

Per finire, chapeau al pubblico palermitano. Di fronte al pisello al vento, principesse e duchesse e gattoparde varie non hanno fatto un plissé, al massimo un educato apprezzamento: alla Scala sarebbe successo l’inferno. E alla fine, trionfo collettivo con un unico buatore per il regista: isolato, ma con voce proiettata benissimo. La prossima volta, canti lui.

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