Condannare Micciché per il “suca” è un sacrilegio

“Stai tranquilla sul peculato me la possono sucare altamente”, dice il deputato nelle intercettazioni. Ma in Sicilia l’espressione si trova ovunque. Anche Repubblica Palermo ha realizzato un sogno: lo ha scritto in un titolo a quattro colonne sotto la testata del giornale

Sul peculato di Gianfranco Miccichè e sull’uso dell’auto blu assieme al suo gatto, non sapremmo cosa dire. Se la vedranno avvocati e magistrati. Ma su quel “stai tranquilla sul peculato me la possono sucare altamente”, ecco, su questo punto – anzi: su questo suca – avremmo tanto da dire. In primo luogo a proposito di quell’ altamente che è il vero capolavoro palermitano, il vero acuto, lo svolazzo, l’avverbio che aggiunge al suca non solo opulenza ma credito. E in secondo luogo avremmo da dire anche qualcosa a proposito del fatto che i colleghi di Repubblica Palermo, i quali, scusandosi, hanno dedicato un titolo a quattro colonne a questa intercettazione, hanno così realizzato un sogno forse inconscio pure per loro in quanto bravi palermitani: cioè scrivere “suca”, il bisillabo con cui il popolo siciliano mitizza se stesso, persino sotto la testata del loro giornale. D’altra parte in Sicilia il suca lo trovi ovunque. Scritto accanto a “Cettina ti amo” su un muro, ma anche sopra alla foto di Miccichè candidato all’Assemblea regionale (chi di suca ferisce di suca perisce), ma pure sul vetro della doccia dell’albergo che non appena si appanna rivela che qualcuno prima di te era stato lì, piantando su quel vetro, con l’indice, la propria bandierina: suca!

Come ha raccontato Francesco Bozzi, scrittore, autore televisivo, compare di Fiorello e umorista palermitano in un pamphlet dall’evocativo titolo di “La filosofia del suca”, i siciliani aspettano con ansia che nevichi. Ma non per ammirare il paesaggio innevato. Aspettano che nevichi solo per poter scrivere “suca” sulla neve. A Catania, dove ogni anno nevica cenere lavica, per esempio, la città si riempie di “suca”. Anzi, nell’impaccio di dover sempre superare i palermitani in corner, i catanesi hanno inventato l’accrescitivo: sucuni. E ogni sucuni etneo tracciato sulla cenere sembra scritto sempre dalla stessa persona, sempre con la stessa grafia. E senza che nessuno, oltretutto, abbia mai visto qualcun altro mentre lo scriveva. La flagranza è incompatibile col sucuni (e col suca).

Su X, l’ex Twitter, esiste anche una pagina celebrativa. Piena di foto. Ed è geolocalizzata, manco a dirlo, a Palermo. Si presenta così: “SUCA, come il muschio, vive sui muri anche dopo essersi seccato, quindi per anni e anni aspetta di sbiadire senza mai cancellarsi”. E il fatto è che il suca non è un semplice “me ne frego”, indolente e canzonatorio. Ma è qualcosa di diverso. Esprime l’idea che niente e nessuno ha potere su di me, né mai lo ha avuto. Che è poi quello che probabilmente voleva dire anche Miccichè. Il quale avrà tanti difetti, magari sarà pure colpevole di peculato, avrà portato anche il gatto sull’auto blu, ma condannarlo proprio per il suca ci pare quasi un sacrilegio. Altamente!

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  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori “Fummo giovani soltanto allora”, la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.

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