Aleramo, Duse e Poletti. Wynn Schwartz racconta le “Figlie di Saffo”

Ah, la Belle Époque, gli anni pazzi in cui nelle case di città arrivarono la luce elettrica e l’acqua corrente, mentre in strada giravano i primi tram elettrici e i parigini salivano eccitati sui tapis roulant! Allora si resero disponibili i primi vaccini, nacque la psicoanalisi, fiorirono il modernismo e l’art nouveau,  e spopolavano abiti femminili scivolosi e morbidi senza più costrizioni. Addio mondo ottocentesco, quell’epoca scintillante e piena di promesse stava disarticolando un ordine rigido e perciò moltiplicava i conflitti: tra lavoro salariato e capitale, tra nazionalismi più o meno aggressivi e perfino nelle famiglie, tra donne e uomini. Le ragazze non volevano più farsi piccole – restare senza istruzione e senza denaro proprio, senza diritti civili e senza voto – perché gli uomini potessero continuare a disporre di loro e a sentirsi grandi specchiandosi nel nulla. Nacquero i movimenti per il suffragio e un femminismo che ancora oggi appare stupefacente e che, come molte altre cose, fu poi risucchiato nel gorgo della Grande guerra, e in Italia inghiottito dal fascismo.
 

Quell’epoca straordinaria, in parte ancora da capire e così attraente per noi che abbiamo scavalcato un secolo, si avverte sottesa, come si conviene a un testo letterario, in un libro particolarissimo di Selby Wynn Schwartz. Torna in modo eccentrico, riletta attraverso frammenti di vita di artiste, intellettuali,  scrittrici e coraggiose attiviste politiche vissute allora e che qui compongono un mosaico di epifanie, piccoli accadimenti quotidiani e fatti storici carichi di senso che si mescolano compiendosi tra il 1895 e il 1928. “Le figlie di Saffo” – questo il titolo del volume –  è fatto di giornate, storie biografiche, eventi, momenti, riflessi che appartengono all’esistenza di Sibilla Aleramo e Virginia Woolf, di Eleonora Duse e Sarah Bernhardt, di Isadora Duncan, Gertrude Stein, Anna Kuliscioff, Radclyffe Hall e altre ancora più o meno conosciute. L’originalità di questo lavoro –  tradotto in Italia da Mariagiulia Castagnone per Garzanti,  inserito dalla New York Review of Books  tra i libri migliori del 2023 e l’anno prima selezionato nella long list del Booker Prize – è tutta nella composizione  e nello stile, nella scrittura lirica e obliqua. Sono frammenti evocativi, come ciò che resta dei versi della misteriosa Saffo e delle sue ghirlande di fanciulle, organizzati seguendo un ordine cronologico e aggregati, come mosaici preraffaelliti, secondo la luce, il colore, la vibrazione di un verso oppure intrecciando  trame di relazioni tra figure che effettivamente si incontrarono o si conobbero o vissero esperienze simili in contesti diversi. Prende così forma una biografia collettiva che si può leggere come si vuole, non necessariamente dall’inizio alla fine ma anche saltando da un frammento all’altro e componendo un proprio ordine personale.
 

Ciò che viene riferito è storicamente vero ma è restituito attraverso l’immaginazione: il risultato è un testo che più ibrido non si potrebbe. Sulla copertina c’è scritto romanzo ma a pensarci somiglia di più a un poema o a un testo drammaturgico, con una voce narrante che riferisce nel modo asciutto e sintetico dei testi antichi e con un “noi”, un coro femminile che commenta al di là dello spazio e del tempo: “Leggevamo Saffo a scuola, nel corso di lezioni in cui ciò che si insegnava era essenzialmente la metrica. Erano pochi i professori consapevoli di riempirci le vene di cassia e mirra. Con voce monotona ci parlavano dell’aoristo, mentre noi sentivamo le foglie degli alberi fremere per effetto della luce, formare chiazze ombrose, e dentro eravamo tutte un tremito”.
 

Ma chi era Saffo?  si chiede Wynn Schwartz, studiosa di letteratura comparata e docente di scrittura alla Stanford University, che possiede più lingue, antiche e moderne, incluso l’italiano. L’intero libro insegue questa domanda e l’eterno ritorno del mito di Lesbo, delle sue narrazioni elusive e delle sue ancestrali radici nel mondo greco. Nell’epoca di cui si parla qui, tra fine Ottocento e primo Novecento, sebbene fosse considerato un crimine e un esercizio osceno, vi fu un’esplicita artistica fioritura dell’idillio saffico: è del 1901 il romanzo omonimo di Liane de Pougy, che qui si materializza come risultato  di una  collana di relazioni amorose tra donne in cui ciascuna rivela all’altra quello che ancora non sa di sé. Questa stessa collana conduce a Renée Vivien intenta a tradurre Saffo in francese e a reclamare la restituzione della sua antica anima, tramandandola come la conosciamo anche adesso: tessitrice di violette.
 

Si manifestarono nell’arco lungo di quell’epoca potenti apparizioni dell’ombra di Saffo, di cui qui ampiamente si racconta. Ma l’idillio saffico più conosciuto è certo quello che lega l’eccentrica Vita Sackville West a Virginia Woolf, che la trasfigura in “Orlando”, romanzo pubblicato nel 1928 e ispirato alla storia dell’antica famiglia aristocratica di lei. Orlando come si sa è un giovanotto dalla bellezza femminea, cortigiano prediletto della regina Elisabetta I, che un bel giorno si addormenta per risvegliarsi donna nel Settecento, fare i conti con le pesanti limitazioni imposte dalla condizione femminile, vivere numerose avventure e diventare una raffinata scrittrice nel giro di un altro paio di secoli. Come ogni capolavoro, “Orlando” è stato e sarà letto con le più diverse chiavi a seconda dello spirito dei tempi: parabola sul mito e sulla sua continua metamorfosi; sul nascere donna e sulle mutilazioni imposte alla libera realizzazione di sé; sull’androginia dell’espressione artistica e sulla naturale bisessualità dell’umano; fino alla favola transgender che piace oggi, nella nostra epoca così propensa a confondere realtà e immaginazione, diritti e desideri, guerra e videogiochi.
 

Ce n’è comunque abbastanza per rendere immortale Vita Sackville West e la lunga lettera d’amore scritta per lei da Virginia Woolf. Ma attenzione, c’è una sorpresa: in questo libro il personaggio guida è un’altra ragazza androgina. L’autrice affida il ruolo dell’icona queer a una poetessa italiana nata a Ravenna nel 1885, allieva di Giovanni Pascoli, raffinata dantista e seduttrice di due famose donne del tempo: la scrittrice Sibilla Aleramo e la divina Eleonora Duse. Si chiama Cordula Poletti e, come altre figlie di Saffo, cambiò il suo nome e divenne Lina. Sibilla Aleramo, che al secolo era Rina Faccio, la descrisse come “un’onda violenta e luminosa”, come la ragazza “con le pupille cerchiate d’oro”, come “la fanciulla maschia”.
 

Lina Poletti, poetessa italiana a noi semisconosciuta, è il filo che Selby Wynn Schwartz ha utilizzato per  connettere il suo frastagliato mosaico di vite e dunque bisogna illuminarle la scena. Sibilla Aleramo e Lina Poletti, che allora aveva appena ventitré anni, si conobbero a Roma nel 1908, al primo Congresso nazionale delle donne italiane, un evento senza precedenti, che fece epoca: la Domenica del Corriere gli dedicò la copertina, presenziava la regina Margherita col cappello piumato e l’abito blu; avevano raggiunto la capitale mille e quattrocento tra socialiste e monarchiche, insegnanti e impiegate,  contesse e suffragiste, donne di tutte le età, signore e signorine espressione di trenta diverse associazioni femminili. Non si misero d’accordo sul diritto di voto, ma tutte convennero su due punti: primo, chiedere la fine dell’odiosa autorizzazione maritale necessaria per qualunque atto giuridico (poi abolita nel 1919, ma la potestà maritale con il diritto di impartire alla moglie ordini e divieti durerà fino al 1975); secondo, non riconoscere diritto di voto sulle decisioni comuni agli uomini presenti in sala.
 

Allora Sibilla Aleramo era già un’affermata scrittrice, due anni prima aveva pubblicato il libro dello scandalo: “Una donna”, il romanzo autobiografico in cui aveva raccontato lo stupro subìto e le nozze riparatrici cui suo padre l’aveva costretta (allora si evitava di andare in giudizio sposando la vittima: il matrimonio riparatore è stato abolito soltanto nel 1981) e poi la nascita di suo figlio, un tentativo di suicidio, l’infelicità  e la fuga dalla famiglia. Così era diventata femminista, scriveva sui giornali, si era legata al poeta Giovanni Cena e non si era mai innamorata di una donna. Lina Poletti invece viveva liberamente la propria omosessualità, cosa certamente molto trasgressiva: giovane e audace corteggiava esplicitamente le signore, voleva scrivere, studiare e viaggiare; si era laureata con Giovanni Pascoli del quale comprendeva la modernità al tempo di D’annunzio e di Carducci, quando intorno al poeta aleggiava la derisione per il lacrimoso orfano. Nel 1918 Lina, che era interventista, pubblicherà da Zanichelli un “Poemetto della guerra”; per tacitare la famiglia, aveva sposato Santi Muratori, amico d’infanzia e direttore della Biblioteca Classense di Ravenna, che aiuterà la coltissima moglie ad affermarsi nella critica dantesca. Resta notizia delle sue “Lecturae Dantis”, in particolare quella in cui  lesse e commentò il XXXIII canto del Paradiso , a Ravenna il 9 maggio 1920, presentandosi in pantaloni e camicia bianca, una camelia infilata nell’occhiello della giacca. Lina resterà fraternamente legata a Santi per tutta la vita, nella reciproca libertà di entrambi.
 

Tra Aleramo e Poletti, la ragazza che poteva tradurre Saffo all’impronta, senza l’aiuto di dizionari, la passione fu ardente e fu Lina a svelare a Sibilla l’idillio saffico, la loro storia è documentata da un famoso epistolario, scoperto e curato da Alessandra Cenni. Aleramo pensò di convincere Giovanni Cena, col quale stava tra l’altro conducendo una generosa campagna di alfabetizzazione dei contadini dell’Agro romano, ad accettare la sua relazione con Lina. Ma nessuno degli altri due accettò il triangolo e tutto cadde in frantumi. Nel 1910 Lina aveva già sedotto Eleonora Duse e pensava di scrivere per lei, per il suo ritorno sulla scena.
 

La grande attrice aveva allora poco più di cinquant’anni, era nata in una famiglia di teatranti e calcava il palcoscenico da quando ne aveva quattro, era stata acclamata e adorata, devastata dalla relazione con il giovane D’Annunzio, delusa da quella con Arrigo Boito. La Duse si sentiva stanca e meditava di lasciare  la scena quando cominciò a ricevere i biglietti galanti e i fiori di un giovane poeta e ammiratore devoto: Tristano Somnians, un protetto del famoso Giovanni Pascoli. Un pomeriggio, romanza Wynn Schwartz, la divina decise di riceverlo e scoprì che si trattava di una ragazza. Era Lina che, “appena entrata in soggiorno, regalò a Eleonora un volume delle opere di Saffo, che aveva aperto al frammento 24C: viviamo/… l’opposto/… con audacia”.

Nella vita di quasi tutte queste donne c’è un vulnus, una ferita profonda e non medicabile. Per Sibilla Aleramo fu uno stupro e la costrizione paterna a sposare l’uomo che l’aveva presa, per Virginia Woolf l’abuso sessuale subito dai fratellastri, per Eleonora Duse una maternità negata: rimase incinta a vent’anni, l’uomo che l’aveva ingravidata s’involò; e lei, che viveva da girovaga della scena, finì per partorire perigliosamente e perse la sua creatura. Per quanto eccezionali,  geniali o divine,  tutte erano sottoposte alla medesima servitù che ne condizionava il destino corrodendo l’anima. Un dolore che esponeva all’instabilità, alla fragilità emotiva. A fine Ottocento lo chiamavano disordine nervoso e si presentava così spesso da considerarsi endemico. L’isteria nascondeva un furore represso. Fu la rabbia – suggerisce Wynn Schwartz – a spingere tante donne a incontrarsi, a solidarizzare, a voler sovvertire lo stato delle cose. In Italia, la battaglia per il voto è durata mezzo secolo.

Lina Poletti, cui questo libro singolare è dedicato , scrisse per Eleonora Duse, che aveva quasi il doppio dei suoi anni, una “Arianna” mai andata in scena e che, quando si lasciarono, fu tra loro causa di controversie legali. Poi si legò a Eugenia Rasponi con la quale rimase per i successivi quarant’anni, sviluppando con lei  i suoi interessi teosofici,  per l’archeologia, per la Grecia e per un misterioso progetto di antropologia culturale di cui non resta nulla. Sono poche le carte rimaste a documentare l’esistenza di Cordula Poletti e parte di esse – le lettere al marito, conservate alla Classense di Ravenna –  sono per disposizioni di lui rimaste inaccessibili. Alessandra Cenni, che per prima ha studiato l’aureo triangolo Aleramo-Poletti-Duse, adombra nel suo “Gli occhi eroici”, pubblicato da Mursia nel 2011, l’ipotesi che Cordula abbia voluto cancellare ogni sua traccia, trasformandosi così nel “fantasma della lesbica” che attraversa la storia italiana. Selby Wynn Schwartz ha raccolto questa suggestione per fare di Lina Poletti una specie di cometa destinata a tornare, come Orlando.

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