Mr. Ripley torna in formato serie. E parte il confronto tra i molti interpreti dell’irresistibile truffatore della Highsmith

Steven Zaillian sceglie Andrew Scott per la miniserie su Netflix. Ha 47 anni, venti anni in più rispetto al personaggio del romanzo, Tom. Patricia Highsmith non lo descrive. Sappiamo solo che è bello e giovane. I maligni sostengono fosse una rivalsa, essendo lei poco leggiadra

Le belle storie non si finiscono mai di raccontare. “Il talento di Mr Ripley” esce nel 1955. Scritto da Patricia Highsmith, una ragazza texana nata nel 1921 che non ancora trentenne già aveva venduto il suo primo romanzo a Hitchcock. Alfred Hitchcock: bell’inizio di carriera per “Sconosciuti in treno”, che al cinema diventerà “Delitto per delitto”. Siccome sono quasi sempre i moventi a incastrare gli assassini, il patto tra sconosciuti – io ammazzo il tuo nemico, tu ammazzi il mio – garantisce l’impunità. Piano semplice e geniale (con qualche complicazione in corso d’opera). Compenso ottenuto dall’agente (a cui spettava il dieci per cento) per l’opera prima di Miss Highsmith: 7.500 dollari. Se pensate siano una miseria, come potere d’acquisto va aggiunto almeno uno zero, e Robert Bloch aveva venduto i diritti di “Psycho” per 9 mila dollari (più le copie fatte comprare dalla produzione per levarle di mezzo: svelavano il finale). Patricia Highsmith parlò con Hitchcock una sola volta, al telefono durante la pre-produzione: il regista aveva appena licenziato il suo secondo sceneggiatore – secondo, si intende, in ordine di gerarchia. Per la stesura finale del copione sarà scritturato Raymond Chandler.

Dal 1955 a oggi – alla miniserie “Ripley” su Netflix, diretta da Steven Zaillian – si contano svariati Ripley cinematografici. I principali sono “Delitto in pieno sole” di René Clément, uscito nel 1959 con Alain Delon nel ruolo di Tom Ripley. A pari merito con “Il talento di Mr Ripley” diretto da Anthony Minghella nel 1999, con Matt Damon che presta il suo ciuffo a Ripley. Entrambi con attori che non si fanno dimenticare, e in un film con Tom Ripley è Ripley che deve essere perfetto. Sui finali cambiati siamo più tolleranti. Wim Wenders, regista sopravvalutato ma con un fiuto per le belle storie – per esempio “A Perfect Day”, sull’uomo che pulisce i cessi architettonicamente raffinati di Tokyo – aveva un Tom Ripley in “L’amico americano”(1977): l’attore era Dennis Hopper, con i baffi. Era l’adattamento del romanzo “Ripley’s Game”, il terzo della saga che ammonta a cinque titoli. Se ne approprierà – l’accoppiata era ben singolare – anche Liliana Cavani, nel 2002, scegliendo come attore John Malkovich. C’è un “Ritorno di Mr Ripley”, dal secondo romanzo della saga, diretto nel 2005 da Roger Spottiswoode. Se aggiungiamo i romanzi di Patricia Highsmith senza Ripley, la lista si allunga di parecchio. E la Bbc, nel 2009, ha adattato per Radio 4 l’intera “Ripliad”.


Patricia Highsmith non descrive Tom Ripley. Sappiamo solo che è bello e giovane: a questo teneva molto. I maligni – d’altri tempi, ora per una frase così ti arrestano per body shaming – sostengono fosse una sorta di rivalsa, essendo la scrittrice poco leggiadra. Eppure da ragazza, quando teneva il conto delle sue amanti dando i voti a ognuna, tracciando una tabella articolata che dava un punteggio alle varie parti del corpo, al temperamento e alla facilità del distacco, in alcune fotografie appare molto bella. Erano gli anni di “Carol”: titolo del film con Cate Blanchett e Rooney Mara: il romanzo era stato pubblicato con lo pseudonimo di Claire Morgan, per non essere etichettata come scrittrice lesbica. Il tempo e l’alcol su di lei hanno infierito oltre misura. E comunque non è riuscita a evitare l’etichetta di “scrittrice di gialli”, che le riusciva assai fastidiosa. Non bastava a compensarla il giudizio più che lusinghiero di Graham Greene: “Avanziamo nei suoi romanzi con un crescente senso di terrore”.



Alain Delon era un perfetto Tom Ripley: bellissimo e abbastanza dannato, Intelligente e imbronciato. Lo pensava anche Patricia Highsmith, morta nel 1995 nel suo rifugio valligiano nel Canton Ticino (i molti tentativi di intervistarla andati a vuoto fruttarono solo un invito alla commemorazione funeraria, organizzata tra i monti, con cartina per gli ospiti che arrivavano da Londra o Parigi). Matt Damon ha una faccia da bravo ragazzo americano che nessun misfatto riesce a cancellare. Sarebbe stato meglio incrociare i ruoli: Jude Law, che fa Dickie Greenleaf, aveva la bellezza e la doppiezza necessaria a un truffatore.



Steven Zaillian sceglie Andrew Scott. Era il professor Moriarty nella serie “Sherlock”, il prete poco spirituale di “Fleabag” e il coprotagonista, accanto a Paul Mescal, di “Estranei” diretto da Andrew Haigh: una storia ambientata in un condominio deserto, tanto somigliante all’aldilà. Ha 47 anni, venti anni più del dovuto – nel romanzo, Ripley & friends sono appena usciti dall’università, e Johnny Flynn nella parte di Dickie Greenleaf ne conta 43. A nostro gusto personale, neanche la bellezza dell’irlandese Scott è quella che dovrebbe essere. Non siamo gli unici, un articolo sul sito della Bbc firmato Helen Bushby pone la questione: “Spellbinding or charmless?”. “Incantevole” come sostiene Lucy Mangan sul Guardian? Oppure “totalmente privo di fascino” come leggiamo su Variety? La questione non è secondaria, per un personaggio che conquista la fiducia del suo prossimo campando di imbrogli – in attesa del colpo grosso.



Orfano e cresciuto da una zia, Ripley dovrebbe essere un seduttore naturale e seriale, abile a rispecchiare i gesti e le parole di chi gli sta davanti. Andrew Scott è rigido e impacciato, anche se spicca benissimo, con le sue camicie bianche, negli interni spogli della casa sulla costiera amalfitana di Alatri, e poi nei salotti sovraccarichi dei palazzi romani. In entrambi i casi, scalini o scaloni da scendere e da salire: il regista non perde occasione di ricordarci che la vita è fatta a scale. Dal labirinto di Alatri ogni tanto sbuca uno spicchio di cielo. I tendoni dei salotti schermano la luce dei pomeriggi sul Tevere. Tutto, sempre, in un magnifico bianco e nero inciso e pittorico.



La trama, per chi non ha visto gli altri film, o letto i romanzi della saga (ora ripubblicati dalla Nave di Teseo): Tom Ripley vive a New York in una topaia, raccattando un po’ di soldi con piccole truffe. Per esempio, si finge esattore delle tasse – faceva il magazziniere e si è fregato un po’ di carta intestata. Dice di chiamare da un ufficio distaccato, dove riscuote direttamente – sempre che arrivino contanti e non assegni, intestati al nome falso che usa nelle telefonate, quindi non incassabili. Nel romanzo ne ha qualcuno sulla scrivania, quando Mr Greenleaf gli affida l’incarico di riportare a casa il figlio Richard detto Dickie, che vive sulla costiera amalfitana e non ha intenzione di tornare per lavorare nel cantiere navale di famiglia. Viaggio in Europa pagato, nel 1955 in nave via Cherbourg, e un bel po’ di dollari in traveler’s cheque, assegni da viaggio rimborsabili in caso di furto. Risolverebbe un bel po’ di problemi, e Tom è svelto a capirlo. La versione di Steven Zaillian, con le età adulte, rende il cacciatore più disperato (essere in bolletta e vivere in una topaia a 20 anni è diverso che a 40) e l’inseguito più convinto nelle sue scelte, di tornare non ha intenzione. Ha una storia con la fotografa Marge – l’attrice Dakota Fanning: anche lei americana all’estero, che prende Tom in immediata antipatia. La villa è alta sul mare, c’è una bella barca a disposizione, l’acquisto di un frigorifero Zoppas con quattro vaschette di ghiaccio nel congelatore è un grande passo avanti nella preparazione dei cocktail. (Anche Patricia Highsmith, prima del ritiro svizzero, aveva vissuto per un po’ a Positano, poi a Roma, poi a Napoli).

La lussuosa e ricercata fotografia di Robert Elswit – premio Oscar per “Il petroliere” – rischia di far dimenticare che siamo nell’Italia degli anni 50



La lussuosa e ricercata fotografia di Robert Elswit – premio Oscar per “Il petroliere” di Paul Thomas Anderson – rischia di far dimenticare che siamo nell’Italia degli anni 50. L’incanto per il frigorifero dai bordi arrotondati fa miglior figura dei quadri di Dickie Greenleaf, pittore dilettante poco dotato (la produzione si è sforzata per trovare bruttissime croste). Marge fotografa con più impegno, e forse scriverà un libro su Alatri.


Patricia Highsmith rifiutava le interviste. “E’ come essere investiti da una macchina, mi ci vogliono settimane per riprendermi”, aveva dichiarato nel 1967, ricordando il fulgido esempio di Salinger che si negava a chiunque. Una ventina di anni dopo, invitata al festival di Toronto, si era sottoposta al martirio. Disse di non riuscire a scrivere con qualcun altro in casa, tranne le lumache che teneva per compagnia. Partecipò a una chiacchierata sui film tratti dai suoi romanzi. Negando l’omosessualità di Ripley, che nei successivi romanzi – (spoiler sulle eventuali serie che verranno) – è sposato e vive in Francia. Come in un romanzo di Henry James, la decadente e licenziosa Europa corrompe gli americani. Con le opere d’arte, per esempio. O con la dolce vita parigina – è la trama di “Gli ambasciatori”, scritto da James nel 1903, che al “Talento di Mr Ripley” assomiglia parecchio. Il titolo allude alle persone fidate che la signora Newsome, ricca possidente in una cittadina industriale del New England, manda in Europa per convincere il figlio Chad, che spreca il suo tempo in bagordi, a tornare a casa. In effetti, passa il tempo con un’amante. Ma chi dovrebbe riportarlo a casa dalla genitrice viene contagiato dalle dolcezze parigine.



Tom Ripley si fa conquistare immediatamente dalla vita dei ricchi espatriati. Fatta di passeggiate e cocktail vista mare, dischi a 45 giri, ogni tanto un’escursione. A Sanremo, per esempio, dove Tom e Dickie vanno da soli. Prima, Tom si era provato le camicie di lino trovate nel guardaroba di Dickie, e le sue scarpe: tutto gli va a pennello. Dickie lo vede e si rabbuia, ma l’incidente pare chiuso. A Sanremo affittano una barchetta a motore – con la raccomandazione “non stare in piedi”. La scena sembra arrivare pari pari dal film “Un posto al sole”, uscito nel 1951, diretto da George Stevens e tratto dal romanzo di Theodore Dreiser “Una tragedia americana”. Montgomery Clift fa cadere in acqua la fidanzata incinta, che non sa nuotare, e finalmente libero sposerà la ricca figlia del padrone. E’ il piano, al netto dei soliti intoppi.



La barca noleggiata a Sanremo viene bruciata e affondata. Torna soltanto Tom Ripley, che si appropria delle valige di Dickie e delle sue scarpe costose – nessuno sano di mente le appoggerebbe con le suole sulla camicia bianca, consideriamola una licenza poetica. Il talento del truffatore torna utile assieme al guardaroba che si era provato allo specchio, entrando in urto con Dickie e soprattutto con Marge, che lo considera gay. Anzi “queer”, nella versione di Zillian. Altra licenza poetica, è dagli anni 70 in poi che il termine diventa popolare (e del resto “gay” nei romanzi di Jane Austen voleva dire “allegro” e nulla più).

Gli alberghi sono dotati di portieri memorabili, alcuni dall’aria un po’ sinistra. Quella del magnifico palazzo a Roma è Margherita Buy



Dopo la gita, Ripley incolla la sua foto sul passaporto di Dickie Greenleaf (trucchetto ridicolo, eppure sfugge anche all’ispettore di polizia che indaga, il bravo Maurizio Lombardi che recita in inglese). Racconta di aver lasciato a casa la fidanzata noiosa e di essere partito per vedere un altro po’ di Italia. Di quadro di Caravaggio in quadro di Caravaggio, proseguendo il giro iniziato insieme alla sua vittima. Altra occasione perché il direttore della fotografia sfoderi i suoi talenti, aggiungendo i suoi chiaroscuri alla luce dei quadri caravaggeschi. Dopo che lo scenografo ha ricostruito il ricostruibile – stazioni, uffici postali, marciapiedi. E alberghi, dotati di portieri memorabili. In inquadrature frontali alla Wes Anderson, che nel film “Grand Budapest Hotel” immagina una società segreta di portieri d’hotel, in ogni luogo caro al turismo di inizio Novecento. I portieri di Steven Zaillian (anche sceneggiatore) sono in divisa, quando si scende di categoria hanno l’aria un po’ sinistra, ma sempre pronti a dare una mano al cliente (che non aveva trolley, solo scomode valigie). La stessa inquadratura frontale tocca agli impiegati di banca, delle poste, delle biglietterie.



A Roma, Ripley affitta un magnifico appartamento. Con la portiera più impicciona, nella sua gentilezza, mai vista. L’attrice è Margherita Buy, modestamente vestita, scarpe con i mezzi tacchi e un meraviglioso gatto che la sostituisce nel mestiere. Guarda l’ascensore che sale e scende – ma spesso è rotto. Guarda gli operai che vengono a aggiustarlo un giorno sì e uno no. Guarda la striscia di sangue lasciata da un corpo massacrato con un pesante posacenere di vetro. E’ il secondo delitto, per timore di essere smascherato. Sapendo che Dickie è a Roma, gli amici passano a trovarlo (non c’erano internet e i cellulari, ma funzionava il fermo posta all’American Express). Uno suona una volta di troppo, la portiera impicciona aveva detto “è in casa”. L’insistente visitatore è Freddie Miles, che nella versione di Anthony Minghella era Philip Seymour Hoffman. Qui è Eliot Sumner, figlia di Sting e Trudie Styler, nata a Pisa nel 1990. Si qualifica come non binaria, e in effetti il nuovo Freddie è abbastanza stravagante. Lineamenti femminili, capelli da paggetto e abiti maschili, che nel 1955 anche per un artista, con l’apostrofo o senza, non passavano inosservati. Il regista nell’adattamento è re, ma dovrebbe sapere quando esagera. Anche nelle mosse necessarie per disfarsi del cadavere, caricato faticosamente sulla Cinquecento, che dura quasi un episodio intero. Il dilettante è di talento, ma deve impratichirsi.

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