Altro che “viva Palestina”. Alla Biennale si dovrebbe gridare “viva Atena”

“Stranieri ovunque”, recita il titolo della Biennale della diversity voluta dal “curatore queer”, il brasiliano Adriano Pedrosa. E straniera in patria è sicuramente l’artista iraniana Atena Farghadani, arrestata il 13 aprile con l’accusa di “blasfemia”, “disturbo dell’ordine pubblico” e “propaganda contro la Repubblica islamica”. Non è la prima volta che viene portata nel carcere di Evin. Farghadani è stata accusata di “relazioni sessuali illegittime” per aver stretto la mano al suo avvocato. Gli ayatollah fecero seguire anche la visita ginecologica per verificare la verginità di Atena, le cui vignette  hanno irriso la Guida suprema in persona Khamenei.

     
Atena Farghadani è stata bendata, malmenata e trascinata in carcere. Come le studentesse dell’Università d’Arte di Teheran, che quando hanno ricevuto l’ordine di “indossare un maqna’a (velo) se vogliono frequentare le lezioni” hanno iniziato un sit in di protesta, per finire anche loro picchiate e arrestate. 

  
L’Iran negli scorsi giorni ha iniziato a intensificare la repressione sull’hijab in diverse città con il “Progetto Nour”, volto a “far fronte alle anomalie” (un velo che non copre i capelli) e che ha comportato una massiccia presenza della “polizia della moralità” in diverse città. Anche la moglie e la figlia di Ahmad Reza Abedzadeh, il portiere di calcio iraniano, sono state arrestate a Teheran con l’accusa di aver violato le norme sull’hijab in vigore dal 1979. Nei video che circolano in queste ore, si vede la polizia morale iraniana che compie agguati alle donne che camminano per strada indossando il velo in maniera irregolare, picchiandole davanti a tutti e arrestandole. A Teheran ci sono dei posti di blocco con agenti della polizia per fermare solo le donne. 

    
Il padiglione di Israele alla Biennale di Venezia sarà anche chiuso, dal momento che la sua curatrice ha deciso di non voler esporre i lavori fino a quando non ci sarà  la liberazione degli ostaggi a Gaza, ma ieri è stato teatro di un sit in di protesta. “Viva, viva Palestina!”, hanno cantato i manifestanti mentre marciavano attraverso i giardini dove si svolge la Biennale, per la fortuna degli ayatollah che hanno indetto l’al Quds Day. La protesta è stata organizzata da artisti coinvolti nella Biennale e attivisti non affiliati all’evento. 

     
“Ci riuniamo come operatori artistici per rifiutare il silenzio”, ha gridato un manifestante alla folla di spettatori. “Penso che sia il posto giusto per protestare”, ha detto Maj Hasager, il rettore dell’Accademia d’arte di Malmö in Svezia, che ha preso parte alla protesta. Sarah Rifky, una curatrice, si è unita al coro: “E’ estremamente liberatorio poter cantare ‘Palestina libera’ davanti ai padiglioni di Israele, Stati Uniti e Germania”. 

  
Nessuno  invece cantava niente davanti al padiglione iraniano
. E per trovare un gesto di solidarietà con la libertà delle donne iraniane si doveva guardare al cappio appeso ieri al ponte dell’Accademia di Venezia da parte dell’Associazione Italia-Iran per la democrazia e la libertà, in segno di protesta per la presenza della Repubblica islamica alla Biennale. 

  
L’iniziativa è stata promossa dagli artisti iraniani dell’associazione, per rimarcare che “la guerra del dittatore Khamenei non è la guerra del popolo iraniano, che desidera vivere in pace con le altre nazioni e che vuole al contempo uscire dall’isolamento internazionale provocato dal regime oscurantista nato dalla rivoluzione islamica del 1979”.

 
Viva Palestina? Viva Atena! E viva “Gabrielle con la camicetta aperta”, il grande olio su tela di Pierre-Auguste Renoir, che nessuno può vedere perché fa parte della collezione del Museo di Arte Contemporanea di Teheran, lascito dei Pahlevi ma che dal 1979 non è visibile al pubblico a causa della camicetta della modella. La “polizia della moralità” vada alla Biennale.
  

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