Il libro di Franco Fortini che ci impone di reimparare a scrivere (anche di libri)

Diciamo subito che questo Pareri editoriali per Einaudi (Quodlibet, 245 pagg., 20 euro) potremmo usarlo per piangere ma soprattutto per rimboccarci le maniche. Piangere non di nostalgia – lagne della serie “ah, quando c’era Franco Fortini a fare il consulente editoriale e coordinava una squadra che doveva selezionare nuovi poeti e annoverava intelletti come quello di Pier Vincenzo Mengaldo, Alfonso Berardinelli, e Walter Siti”… oppure: “Ah, quando i pareri, a uno come Franco Fortini, glieli chiedeva una come Natalia Ginzburg…”. No, qui non si tratta di spargere lacrime petulando circa i sopraggiunti detrimenti. Si tratta, semmai, di capire quanto dobbiamo reimparare. Reimparare a scrivere. A scrivere i libri. A scrivere di libri.
 

La raccolta documenta due stagioni di Fortini, quella dal 1947 al 1963 e quella dal 1978 al 1983. Più ricca la pesca dal secondo periodo, dato che nel primo non esisteva un vero contratto tra Fortini e l’editore, o meglio, un contratto ci fu anche, e riguardava la direzione della Piccola Biblioteca Einaudi, ma poi il nostro rassegnò le dimissioni causa conflitti legati alla sua visione editoriale, troppo debitrice, secondo i detrattori, della collana “Quoi sais-je?” di Presses Universitaires de France, reo, Fortini, di un eccessivo enciclopedismo – avergli affiancato Franco Lucentini non servì a molto, i due lavorarono insieme una manciata di settimane. Il secondo periodo è certamente più fitto ed è proprio qui che si colloca la collaborazione dei sopracitati. Scopo del lavoro, “occupare uno spazio vergine del mercato letterario, potenzialmente proficuo”. Ne venne la serie dei “Nuovi poeti italiani”, una collana che guardava a un nuovo tipo di lettore “che non solo legge ma scrive”, del resto il numero dei dattiloscritti che arrivavano in casa editrice stava crescendo esponenzialmente e se mai vi chiederete quando tutto è cominciato, ecco la risposta: 1978. Fortini tagliò lo spazio all’ennesima rivista: l’idea era proprio di non farla. “Rischieremmo di metter su un fastidiosissimo e pericolosissimo allevamento di pulci liriche”. Ma tuffandosi tra le righe nei suoi “referti” e trasformandoli in utili prescrizioni per chi scrive e per chi legge (e sì, un po’ anche per chi pubblica), ecco che sì, è proprio il caso di prendere qualche appunto.
 

Qualche esempio? Saggio di traduzione di Amedeo Giacomini, François Villon, Le testament. E Fortini: “Siamo alle solite. Questo giovane cugino di Pasolini crede Villon un poeta facile. E traduce il candore in anemia”. Adolfo Bioy Casares, L’invenzione di Morel: un racconto che è “l’ultimo mito letterario degno di essere letto e commentato da Freud, ma il titolo è moscio”. Segue profezia: occhio, “tema formidabile per un film” – lo faranno nel 1974. Gianni Celati, Lunario del paradiso: molto divertente ma monotono, con un certo “verismo vernacolare” che affiora sotto l’aria “svampita del resoconto”. Il vero limite del racconto, che pur Fortini mostra di apprezzare, è “il suo carattere di monologo per maschera, tutto recitato”. Conclusione? “Ridurre della metà”. Eudora Welty? “Un’onesta intelligenza letteraria, nulla di più.” Georges Perec, La vita, istruzioni per l’uso: “Irrespirabile. Il sogno supremo di essere più intelligente del compagno di banco. Divertente, iettatorio, noiosissimo. Kitsch come il titolo. Contributo alla creazione di sottoletteratura. Con tutto questo, il mio parere è sì”. Di altre opere, scriveva cose come: “Una stoppa faticosa di personaggi-ombra e di vicende che servono solo da supporto” e “dolorosità molto giovanile”. Di un autore: “Radicalmente bischero. Si destini (se si spiccia) al giornalismo (settimanali alla buona)”. “Non un libro cattivo, ma un libro troppo fatto” – era Adamo risorto di Yoram Kaniuk.
 

Impagabili certe sintesi: “Vedovo inconsolabile di giovane moglie crede ritrovarla in affascinante angelico giovanetto ma finisce alcolizzato e apre il gas. La scrittura non raggiunge la dignità della biblioteca rosa”. E snocciola tre frasi indifendibili: “C’erano dolcezza e ironia in quella voce”, “la gola gli si era chiusa in una morsa”, “il gelo sciabolava la sua schiena”. Quante volte vi è capitato di leggerle? Solo mille?

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