Fu un’emozione, nei tempi del mio entusiasmo giovanile, veder nascere e crescere alcuni artisti che avrebbero restituito dignità, con le loro nuove creazioni, a un’idea d’arte dispersa in ricerche di spesso sterile sperimentazione. Con l’inizio degli anni Ottanta, liberandosi da vincoli ideologici, iniziarono ad affacciarsi giovani maestri, come Wainer Vaccari, Luigi Serafini, Giorgio Tonelli, Giuseppe Modica. Avevano alle spalle il vuoto. In quel deserto si erano mossi, fedeli all’uomo e alla sua coscienza, negli anni Sessanta e Settanta, Carlo Guarienti, Gianfranco Ferroni, Piero Guccione, Gaetano Pompa, Riccardo Tommasi Ferroni, Alberto Sughi, Renzo Vespignani, Lorenzo Tornabuoni, Giuliano Vangi, Bruno Caruso, Augusto Perez, e pochissimi altri. Isolati, solitari, frequentemente rimossi, andai a trovarli nei loro studi come rifugiati.
La loro presenza sarebbe stata comunque fondamentale. Per me era un mondo da esplorare ma, nel passaggio dagli anni Settanta agli anni Ottanta, non sarei stato solo. Plinio De Martis coltivava alcuni conservatori ribelli, lenti e profondi nelle loro meditazioni, in esilii padani: Aurelio Bulzatti, Lino Frongia, Maurizio Ligas. Altri stavano in trincea, a Roma, osservati con attenzione da Maurizio Calvesi e da Giuseppe Gatt: i cosiddetti citazionisti, classici fino a essere accademici, Carlo Maria Mariani, Antonio d’Achille, Bruno d’Arcevia, Stefano Di Stasio. La riscossa era matura.
La mia soddisfazione fu ancora più grande quando vidi rinascere, dalle macerie delle forme perdute, alcuni scultori: i primi due, or sono quarant’anni, furono Giuseppe Bergomi e Girolamo Ciulla; a loro si aggiunsero poi Giuseppe Ducrot e Livio Scarpella. Pietrasanta era per loro, e sarebbe stata per tutti, un’isola felice. Sulle renitenti tracce di Leone e Marcello Tommasi, con il loro studio, sarebbero arrivati, aspirando a diversi modelli di classicità, veri eroi della resistenza, Fernando Botero, Ivan Theimer e Igor Mitoraj, destinati a non amarsi, ma a credere, in diverso modo, alla forza dell’uomo, alla sua centralità, al tema del mito, che era stato esaltato, fino a toccare il cielo, dall’ultimo dei classici, antichi e moderni: Antonio Canova. Era difficile sia tornare a lui, sia superarlo. Ma i più giovani osarono.
Era impossibile, per tutti, non riconoscere, nella prima parte del Novecento, la sfida, oltre Rodin e Medardo Rosso, di Adolfo Wildt, di Arturo Martini, di Marino Marini, di Giacomo Manzù, di Francesco Messina, tutti a loro modo classici e solitari. In Toscana avevano coltivato un classicismo domestico, alla scuola di Libero Andreotti, Bruno Innocenti, Antonio Berti, Lelio Gelli, Romeo Gregori, Mario Parri. Il secondo dopoguerra aveva aperto la strada a linguaggi nuovi, comprimendo la figura umana a puro esercizio accademico. Gli esiti potevano essere talora sublimi come in Vittorio Tavernari, ma soltanto Manzù avrebbe avuto la forza di resistere, mentre altri, di grandissima sensibilità, furono costretti all’isolamento: Giuseppe Gorni o Ernesto Ornati, o Giuseppe Guida, ancora sommerso.
Davanti ai miei occhi apparvero perciò come una rivelazione l’integrità e l’innocenza di Giuseppe Bergomi, con la dignità del corpo, fuori dall’accademia. Mi apparve un mondo nuovo; e a lui ritorno, a lui di Brescia, vicino ad alcuni testimoni, artisti attenti ai temi della pura esistenza (penso soprattutto a Gianfranco Ferroni ma anche alla interpretazione religiosa ricercata da Giovanni Testori), quando penso allo stupore e all’euforia della prima volta che vidi Gerolamo Ciulla; dunque non c’era una rinascita soltanto, a ripensare a Moretto e a Romanino, in una parte dell’Italia, in quella che io presto chiamai la scuola di Brescia; ma, così come si era creata intorno a Guccione, con solitari e rifugiati, la scuola di pittori di Scicli, era possibile riconoscere uno scultore nuovo, e potente, e valoroso, in Sicilia. Ciulla era, è, di Caltanissetta.
Lo vidi la prima volta nello studio di un grande mercante d’arte, il più appassionato e determinato sostenitore della pittura figurativa, degli artisti, spesso più isolati che solitari, che egli tenacemente esponeva nella sua galleria a Bologna: Tiziano Forni. Fu in quegli anni, e anche nel dialogo con lui, che, ricercando nella notte i tanti dispersi, preparai la mostra al Palazzo della Permanente a Milano: «Vitalità della figurazione». Ciulla aveva mandato dalla Sicilia le sue prime sculture a Forni, e io ne sentii subito la forza e la potenza. Venivano dalla memoria dei templi dorici, da Segesta, da Selinunte. Così pensai al dialogo fra Bergomi e Ciulla, fra Nord e Sud, e fu un dialogo vero.
Era, nelle opere e nelle mie parole, come se si fossero incontrati fuori del tempo e dentro il tempo, in un luogo perfetto, a Camarina, sito archeologico davanti al mare, in cui la natura e l’arte si uniscono in una sola forma. Al confronto, Bergomi mi appariva intimista, legato ai sentimenti immutabili di una tradizione e di una famiglia cristiane, mentre Ciulla era certamente pagano, ma in quella forma, propria delle Matres matutae, in cui l’umanità e la religione si fondono. C’era in lui qualcosa di arcaico e di profondo, più vicino allo stile severo che a quello classico, come se nelle sue sculture rivivesse la memoria delle Kore e di Kouroi arcaici. Vedevo a confronto due classici, uno che discendeva da Canova, l’altro che discendeva dal maestro di Olimpia. Una classicità rigenerata. E non mi sarebbe sembrato casuale che, al tempo della sua apparizione, sia stato ritrovato l’Efebo di Mozia, che egli aveva prefigurato senza conoscerlo.
L’emozione che la scultura di Ciulla determina è primaria, come se l’idea fosse nata con lui, in una sintesi e in una semplificazione dettata in altre forme, divenute in lui asciutte e astute. La pietra, il travertino soprattutto, gli consentivano rigore e morbidezza, in un dialogo inevitabile con l’architettura, esattamente come gli antichi nei fregi e nei timpani dei templi. Così è stato con la prima scultura che vidi fino alle ultime, monumentali, presso il suo studio di Pietrasanta, in parte esposte all’Expo 2015 a Milano. La forma di Ciulla è forte, decisiva, non sottoposta al tempo e al mutamento. All’improvviso Ciulla se n’è andato, e non mi sembra possibile che ciò che è stabile perisca.
Così, mentre la triste notizia mi arrivava, io entravo nel singolarissimo museo Omero di Ancona, un museo tattile, per ciechi, con i calchi delle sculture più celebri. Al secondo piano opere originali di scultori contemporanei, fino all’immancabile (e pretestuoso) Pistoletto, che pure, nella sua scultura monumentale di Porta romana, a Firenze, aveva presagito Ciulla. Non potevo prevedere che, in quel museo, dove non sono gli occhi a guidare, ma le forme, dominante fosse, e assoluta, una scultura di Ciulla, che ho guardato e toccato come se fosse la sua anima. Lui vivo, immortale come ha voluto essere. Degli altri si contano le ore; per lui è iniziata l’immortalità.