Per prima cosa. Smanettare su YouTube – o quel che è – e cercare Film, il film girato da Alan Schneider nel 1964, su soggetto-suggestione di Samuel Beckett. Film parla di un uomo braccato da se stesso, che cammina, storto, inerme, rasente i muri. Chi lo guarda, urla. Anche lui, muto, urla. Esiste una sintonia grammaticale tra l’occhio, la mano, la bocca, la stanza. Ogni spazio è neutro, primigenio. Buster Keaton con lo Stetson, il cappotto, la benda che gli copre l’occhio sinistro, ricoperto di rughe, con il viso atterrito, è memorabile. Sul muro della stanza su cui siede Buster Keaton, più o meno a metà del cortometraggio, appare «il volto di Dio Padre, con occhi che lo scrutano con severità».
L’uomo strappa l’immagine divina, di fattura assira, «la fa in quattro parti, getta i pezzi a terra e li calpesta». Eppure, l’occhio che lo bracca, in questa caccia accecante, continua a mirarlo, da dentro. L’occhio interiore – la cupa colpa?, il verdeggiare dell’anima? – è l’opposto di quello del Grande Fratello, dell’occhio di Mordor, della telecamera perpetua della società del controllo: è più fatale. Nel Prospetto generale di Film, Samuel Beckett cita il filosofo – e vescovo della Chiesa d’Irlanda – George Berkeley, «Esse est percipi», spiegandoci che «Soppressa ogni percezione estranea, animale, umana, divina, la percezione di sé continua a sussistere. Il tentativo di non essere, sottraendosi a ogni percezione estranea, è destinato a fallire per l’ineluttabilità dell’autopercezione».
Film mi ha fatto venire in mente due cose. La prima è Wakefield, enigmatico protagonista dell’omonimo racconto di Nathaniel Hawthorne. Wakefield, un giorno, senza ragione, abbandona la casa londinese e la moglie, si trasferisce in una strada parallela, e lì vi resta, preso per morto da tutti, per vent’anni. Tenta di non essere, di vivere rasente i muri, da sconosciuto. Questo mistico del nulla – che, dopo vent’anni, come nulla fosse, ritorna a casa sua – è detto da Hawthorne «il Reprobo dell’Universo». L’altro riferimento è un distico, tratto da Il Conte di Kevenhüller di Giorgio Caproni. Il poeta mette in scena una fatidica caccia alla «feroce Bestia di colore cenericcio», accaduta nel luglio del 1792, a Milano, per concludere che «La Bestia che cercate voi/ voi ci siete dentro». Come a dire che il dio da cui fuggi è un licaone, ti divora da dentro; noi di noi stessi siamo il crocefisso.
Film mostra il desiderio – illecito – di una vita anonima, senza nomi né verbi. Morire come non si fosse mai vissuto: privilegio concesso ai giusti, delizia che sfiora l’immortalità. «Morire spogliato di tutto, disteso a terra, nudo, irriconoscibile», scriveva Charles de Foucauld. Invece – dice Beckett – c’è sempre qualcosa, qualcuno – noi stessi – che ci riconosce, consegnandoci alla prigione-sintagma del corpo. Così in Peggio tutta (Worstward Ho): «Dire un corpo. In cui niente. Niente mente. In cui niente. Almeno questo. Un luogo. In cui niente. Per il corpo. Per esservi. Per muovervisi. Andarne. Tornarne. No. Niente andate. Niente ritorni. Solo esservi. Restarvi. Ancora. Fermo». Dire il corpo. Verbo fatto carne. Verbo che rovina in morte.
Samuel Beckett sta sulla soglia tra dicibile e indicibile, tra «detto» e «sdetto» («Detto è sdetto»; ancora, Peggio tutta), tra parola e bituminoso balbettio, tra linguaggio e glossolalia. «Dico e ridico e non dico niente», scrive Veronica Giuliani, mistica marchigiana vissuta nel XVIII secolo, degna icona beckettiana. Dopo Beckett, il nulla, un sudario sul fatto letterario. Beckett, faccia da condor: distilla l’ultima fibbia di sangue dal cadavere della letteratura d’Occidente – ci lascia la carcassa, putridume il cui odore ci avvolge da quando Samuel è morto, tre giorni prima del Natale 1989.
Voglio dire. Il magistrale «Meridiano» Mondadori che raccoglie Romanzi, teatro e televisione di Beckett (a cura di Gabriele Frasca, quasi duemila pagine per 80 euro), va letto lasciando di lato ciò che di Beckett si sa (o si suppone) per cancro scolastico, per metastasi accademica. Partite dai testi secondari, laterali, tardi, dai testi per la tivù, dai testi disadatti, inadattabili, con l’oro della balbuzie addosso. Partite da Play, da but the clouds, per penetrare la notte oscura di Beckett: testi dalle parole primarie, senza etimologia, da ultimo uomo sulla terra. Parole epigrafiche, pronunciate ora o mai più, che fanno della messa in scena una massa scomposta: non si tratta di ripetere un formulario liturgico per far rivivere un qualche cosmo, ma di espellere ciò che resta del verbo per ritornare all’originario vuoto, al primevo silenzio.
Messa in scena: Ite Missa Est. In ogni caso: parlare fino allo sfinimento. Parlare per spossessarsi. Parlare finché ogni parola sia sindone senza icona, veronica priva di volto. Tutto è nero e bianco, negli estremi testi di Beckett (così in Play: «meglio il buio, e più è buio peggio è, fino alle tenebre, allora tutto bene, finché dura, ma capiterà, l’ora verrà, ed ecco lì la cosa, tu la vedrai, mi lascerai in pace, una buona volta, e tutto buio, tutto fermo, chiuso, cancellato»); bianco all’eccesso che si disfa in corpo oscuro. Tormenta di buio, tormenta di neve (così in Mal vu mal dit: «Profonda oscurità nella casupola mentre lei biancheggia lontana Qui l’occhio senza chiudersi la vede in lontananza. Immobile nella neve sotto la neve»). Bianchi bagliori di crudele tenerezza, biacca del cuore (in Eh Joe, dramma per la tivù del 1965: «C’è un’anima vivente che ti ama adesso, Joe? Una sola anima vivente che si preoccupa per te, adesso?»), che sgomentano. Samuel Beckett, lo sterminatore, lo stilita.
Leggere, cioè, gli ultimi testi di Beckett come un invito all’eremitaggio, come esercizi spirituali in assenza di Dio. La rivelazione è la rivolta – linguaggio corona di spine -; parola che crepa in un crepitio di pettegolezzi. È stato Harold Bloom (qui: Rovinare le sacre verità, Garzanti, 1992), a riconoscere in Beckett, «il più forte degli autori in occidente, l’ultimo sopravvissuto di una sequela che comprende Proust, Kafka e Joyce», lo stigma mistico. «Basilide o Valentino, eresiarchi alessandrini, avrebbero subito riconosciuto il mondo della trilogia o delle commedie più importanti: Aspettando Godot, Fine di partita, L’ultimo nastro di Krapp. È il mondo dominato dagli Arconti, il kenoma, il non-luogo di vuoto. La spiritualità enigmatica s’impegna nella ricerca (benché sporadica) di un vuoto che sia una pienezza, dell’abisso o pleroma che gli gnostici chiamavano sia antenato che antenata». Non c’è bisogno di trarre l’armeria gnostica. I lari di Beckett – come quelli del suo maestro, James Joyce – sono il libro di Giobbe e lo Pseudo-Dionigi, la via di Meister Echkart, il trattato ascetico inglese del XIV secolo, The Cloude of Unknowyng e il Book of Kells.
Qualche anno fa ho visto un Beckett messo in scena – meglio: all’angolo – da Francesca Benedetti, antica musa di Testori. Pluriottantenne, mezza nuda, la formidabile attrice berciava, urlava, non avrebbe avuto problemi a defecare in mezzo al pubblico. Il non-uomo. Il puro uomo. Adamitico. Eccola, la mistica lezione di Beckett. Farsi animali. I cani di Dio. E tacere. Finalmente. Tacere.