“Le mani al collo della moglie? È comunque un tentato femminicidio”

"Le mani al collo della moglie? È comunque un tentato femminicidio"

È tentato femminicidio, anche senza ferite. È una sentenza che potrebbe fare scuola, quella pronunciata dalla Corte di Cassazione, e che sembra testimoniare un crescente rigore nei confronti della violenza di genere. Il caso risale al maggio del 2021, quando un 40enne di Travagliato, nel Bresciano, afferra per il collo la moglie, dopo averla spinta contro il muro. La violenza si scatena entro le mura di casa al culmine dell’ennesima lite in famiglia, dopo che la donna scopre una relazione a distanza del marito con un’amante conosciuta sul web nelle settimane di lockdown: lui solleva da terra la moglie stringendole il collo, al punto che la donna ha la vista offuscata e perde conoscenza. A scongiurare il peggio è il figlio della coppia, che riesce a far allentare la presa e a far respirare la madre. Per il giudice, che nel novembre di due anni fa ha condannato il 40enne a dieci anni di carcere, l’aggressione avrebbe potuto avere conseguenze letali, se non fosse intervenuto il ragazzino. Pur ammettendo la violenza, l’uomo aveva comunque impugnato la sentenza di secondo grado tentando di dimostrare di non avere mai provato a ucciderla. Per i giudici a contare sono però i «potenziali effetti dell’azione», così la Corte ha respinto la difesa dell’uomo spiegando che «la scarsa entità (o anche l’inesistenza) delle lesioni provocate alla persona offesa non sono circostanze idonee a escludere di per sé l’intenzione omicida, in quanto possono essere rapportabili anche a fattori indipendenti dalla volontà dell’agente, come un imprevisto movimento della vittima, un errato calcolo della distanza, una mira non precisa o l’intervento di un terzo». Proprio come nel caso di Brescia, con il figlio ad interrompere l’aggressione.

Un’altra storia di violenza e segregazione arriva dalla provincia di Agrigento, dove una 19enne incinta viveva rinchiusa in casa a chiave dal marito, picchiata, accusata e mortificata a più riprese. Il 25enne è stato condannato dalla prima sezione penale del tribunale di Agrigento a tre anni e sei mesi e dovrà ora risarcire con 15mila euro la madre di sua figlia che si è costituita parte civile nel processo.

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