Petrolio in caduta libera, non c’è l’intesa sui tagli

Big del petrolio centrali per il green e i dividendi resteranno generosi

Le ipotesi di prezzi del petrolio a 100 dollari il barile in caso un allargamento del conflitto fra Israele e Hamas su scala medio-orientale si sono sgonfiate come un soufflé mal riuscito. Il greggio fatica ora a tenere la soglia dei 70 dollari e dopo il calo del 3,8% accusato ieri dal Wti (chiusura a 69,67 dollari) è di 20 dollari secchi la botta rimediata dalla quotazioni in poco meno di un mese e mezzo. Se le ostilità rimaste circoscritte alla striscia di Gaza hanno agito da agente calmierante, altre cause stanno incidendo sui mercati petroliferi, dove l’andamento del Brent (-3,7% a quota 74,3) è speculare a quello della controparte statunitense. Motivi contingenti, come il calo superiore alle attese negli Usa di 4,632 milioni di barili nella settimana terminata il primo dicembre, si sovrappongono a ragioni congiunturali (il polso flebile dell’economia cinese) che aprono interrogativi sull’effettiva sete di energia a livello globale, come dimostrano le stime divergenti fra Aie e Opec+. Il principe saudita bin Salman ha di recente puntato il dito contro gli speculatori, ma è proprio nell’incapacità di sostenere i prezzi da parte del Cartello nel format allargato a pesi massimi come la Russia, che alcuni analisti individuano la causa principale di quanto sta accadendo. Il vertice di fine novembre ha offerto poco e niente sul versante del contenimento produttivo: ai confermati tagli di Ryad e Mosca di 1,3 milioni di barili al girono si è sommato il contributo irrisorio (700mila barili) di altri membri, senza peraltro appianare le divergenze con i Paesi africani.

Divisioni interne che si saldano alle difficoltà saudite di tenere in piedi il suo singolare sistema di alleanze (Usa, Russia e Cina) e soffiano sul fuoco di una possibile revisione della politica produttiva. Con in più la grande incognita rappresentata dall’ingresso nell’Opec del Brasile, a partire dal prossimo 1 dicembre. Il governo di Lula intende alzare l’output da 3,7 a 5,4 milioni di barili al giorno entro il ’29: un proposito che mal si concilia con le ambizioni di chi – Russia su tutti – preme per assottigliare l’offerta.

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