Bandiere russe ed emiratine, una scorta di militari a cavallo lungo tutto il percorso dall’aeroporto al palazzo dello sceicco, ventuno salve di cannone e perfino una lunga striscia nel cielo con i colori rosso, bianco e blu della Russia, disegnata da una pattuglia acrobatica.
Il benvenuto ad Abu Dhabi per Vladimir Putin non poteva essere più caldo, né più scenografico. Il dittatore russo, che è di fatto un ricercato internazionale da quando la Corte Penale dell’Aia lo vuole processare per crimini di guerra su scala colossale (700mila bambini ucraini strappati alle loro famiglie e deportati in Russia), gongola mentre scende la scaletta del suo maxi aereo presidenziale e si gusta gli onori di Stato al fianco del presidente degli Emirati Arabi Uniti Mohamed bin Zayed al Nayhan.
Gli Emirati e l’Arabia Saudita, che Putin ha scelto per la sua prima vera visita all’estero dopo l’emissione del mandato di cattura internazionale, non soltanto non riconoscono la Corte dell’Aia, ma sono due dei sei Paesi che hanno recentemente annunciato l’intenzione di aderire ai Brics, il blocco politico-economico costruito attorno alle autocrazie di Pechino e Mosca che punta a sfidare l’egemonia globale dell’Occidente liberale. In realtà, per gli Emirati, si tratta soprattutto di incrementare la già ampia collaborazione economica e tecnologica: politicamente, ad Abu Dhabi preferiscono tenere i piedi in più scarpe, seguendo l’esempio dell’India che collabora con Cina e Russia ma costruisce d’intesa con americani e israeliani una via commerciale alternativa a quella «della Seta» tanto cara a Xi Jinping.
Putin, comunque, gode del suo rientro non più solo virtuale (come era stato al recente G20) sulla scena mondiale. In Arabia, il cui peso geopolitico è ben superiore a quello emiratino, l’incontro di ieri sera con il principe regnante Mohamed bin Salman ha riguardato anche la tragica situazione a Gaza. In questi due mesi seguiti all’attacco di Hamas in territorio israeliano, la situazione in Medio Oriente è stata rivoluzionata, a tutto vantaggio dei tre alleati antioccidentali Russia, Iran e Cina che stanno apertamente con l’aggressore. In questa crisi Riad, che prima del 7 ottobre era prossima a una storica intesa con Israele, gioca un ruolo attendista: difende a parole la causa palestinese, ma non rinuncia ai suoi progetti che Putin ha indirettamente contribuito a complicare agendo in ottica antiamericana.
Arabia e Russia, tuttavia, in ambito petrolifero hanno un obiettivo comune: il rafforzamento della collaborazione tra questi due colossi della produzione globale, che puntano a tenere alti i prezzi del greggio riducendo l’estrazione. A pensar male (ma forse bene) la minaccia del vassallo venezuelano di Russia e Cina Nicolàs Maduro di invadere la Guyana, recente protagonista di un boom produttivo di petrolio che ha pochi precedenti al mondo, serve la stessa causa con modalità criminali.
Oggi, tornato a Mosca sempre scortato da quattro jet da guerra, Putin incontrerà un leader mediorientale a lui più congeniale: lo stretto alleato iraniano Ebrahim Raisi, suo prezioso fornitore di droni e missili da impiegare contro l’Ucraina. Paese del quale il Cremlino sottolinea in questi giorni le difficoltà a resistere alla sua aggressione. Si tratta però, a ben vedere, di un problema politico interno americano: bloccando l’invio di armi, i repubblicani tengono Kiev in ostaggio del loro disegno di obbligare Biden a finanziare insieme alla difesa ucraina il controllo militare del confine col Messico in funzione anti immigrazione. Entro fine mese il nodo sarà sciolto e si vedrà se a Mosca hanno ragione a sfoggiare ottimismo.