È un’immagine a tratti contrita, sin quasi alle lacrime, quella che Boris Johnson ha esibito ieri di fronte alla commissione indipendente d’inchiesta sulla risposta britannica all’emergenza Covid, incalzato per ore nella prima di due giornate di audizione fiume sugli errori, i ritardi, le contraddizioni imputate al suo governo e alla sua leadership nei mesi più duri della pandemia. Audizione durante la quale l’ex premier Tory artefice della Brexit ha fatto mea culpa, in forma solenne, seppur parziale. Riconoscendo negligenze, passi falsi, valutazioni imprecise e rivolgendo coram populo una richiesta di scuse alla sua gente. Scuse che non cancellano l’autodifesa su parte delle contestazioni e che diverse voci nella platea di familiari delle vittime si sono levate a contestare pubblicamente: fino a dargli dell’ «assassino» a costo di farsi espellere dall’aula dalla baronessa Heather Hallett, presidente della commissione ed ex alto magistrato in pensione. «Sono profondamente dispiaciuto per il dolore, le perdite, la sofferenza delle vittime e delle famiglie», ha esordito BoJo dopo il giuramento di rito. Premessa da cui ha fatto discendere tutte una serie di ammissioni, calibrate evidentemente nel dettaglio con i suoi legali dopo una preparazione durata mesi, secondo i giornali, e corredata da 6.000 pagine di documenti. A cominciare da quella esplicita di essersi accorto «decisamente troppo tardi» della gravità di un incubo che a ridosso di Pasqua del 2020 avrebbe condotto lui stesso a un drammatico ricovero in terapia intensiva. Messo sulla graticola dalle domande di Hugo Keith, principe del foro londinese e capo inquirente della commissione, l’ex primo ministro si è addossato in veste di leader la «responsabilità personale di tutte le decisioni prese».