Forte è la differenza tra il momento storico di Raffaele Mattioli e i nostri giorni. A cinquant’anni dalla scomparsa è tempo di fare un bilancio di quanta parte della sua eredità è stata raccolta dai grandi banchieri di oggi. A metà del secondo scorso, l’Italia era in pieno boom economico post conflitto mondiale, lo Stato svolgeva il ruolo di traino dell’economia, generando occupazione attraverso le controllate pubbliche, tra cui le banche. Non c’erano rating né il problema del debito pubblico: nessuno pensava che emettere titoli governativi potesse generare un tale livello di debito da porre a rischio la capacità di uno Stato di restituirlo. I mercati erano prevalentemente nazionali, così come la Vigilanza. A loro volta le banche non erano quotate in Borsa e comunicavano i propri risultati una volta l’anno solo durante le assemblee per l’approvazione del bilancio. La concorrenza era un fenomeno del tutto nazionale.
Oggi le banche sono quotate, hanno stretti vincoli di comunicazione, devono approvare budget e annunciare piani di impresa; la concorrenza nel settore e il ruolo di istituti e intermediari è diventata determinante. E i mercati sono globali: Asia, Medioriente e Africa oggi sono protagonisti affermati; e la dimensione aziendale è discriminante per competere a livello internazionale. Negli ultimi tre anni siamo passati attraverso una pandemia, il conflitto russo-ucraino, la nuova crisi in Medio Oriente: ciò dimostra come la discontinuità, spesso imprevedibile e del tutto esogena, sia diventata la normalità mentre la sfida ambientale è sempre più rilevante.
Il sistema del credito ha superato le precarietà croniche ed è molto più solido. La capacità delle banche, in particolare quelle italiane, di affrontare le crisi è migliorata costantemente nell’ultimo decennio, grazie anche a una crescente consapevolezza dei rischi potenziali. A questo hanno contribuito una regolamentazione più stringente e una Vigilanza più pervasiva, attenta e scrupolosa, insieme a una governance profondamente rafforzata e a una maggiore attenzione agli stakeholder in generale.
Il grado di patrimonializzazione degli istituti italiani è ai massimi storici, con un rapporto tra fondi propri e attività ponderate per il rischio allo stesso livello della media delle principali banche dell’area euro, mentre le capitalizzazioni sono più che raddoppiate rispetto al biennio 2007-2008.
Molti progressi sono stati compiuti, poi, sulla qualità del credito. Si tratta di un risultato noto, ma che è giusto ribadire ancora una volta per dimostrare l’impegno profuso nel de-risking e nel miglioramento della gestione del credito. Il rapporto tra crediti deteriorati e crediti totali è sceso dal 17% circa del 2015 all’1,2% di fine 2022 al netto degli accantonamenti. Nè va trascurato il fatto che le banche italiane sono caratterizzate da una forte liquidità, il cui indice di copertura, pari al 166% a giugno 2023, è molto più alto del livello pre-Covid (149% a fine 2019) e del minimo regolamentare del 100%: siamo al top in Europa. Infine è necessario sottolineare che modelli di business più diversificati e alti livelli di flessibilità operativa possono garantire un miglior grado di risposta ai cambiamenti improvvisi indotti dagli choc in contesti avversi e che le attività finanziarie delle famiglie italiane a giugno di quest’anno erano pari a quasi 5.300 miliardi di euro, quasi il doppio del debito pubblico.
Lo scenario competitivo è dunque profondamente diverso ma le attitudini professionali di Mattioli e i suoi comportamenti sono attualissimi. È stato il primo a esaltare l’importanza del conto economico e dell’analisi dell’azienda, accanto allo stato patrimoniale. Ha sempre puntato a conoscere il business dall’interno e da lui abbiamo imparato a prendere in esame più bilanci annuali per capire il trend e i comportamenti di un’impresa. Incontrava imprenditori, capitani d’industria ma anche dirigenti, perché soltanto attraverso la conoscenza delle strutture organizzative poteva percepire il valore di una azienda. Aveva sviluppato la dote più importante per un banchiere: l’intuitu personae. Una dote che ti porta a capire subito se una persona è capace di onorare gli impegni. Ha tenuto in forte considerazione il credito mobiliare, concesso in vista di sbocchi sul mercato dei capitali, dove chi lo erogava assumeva un rischio molto simile a quello dell’acquisizione e che non poteva essere concesso dalle banche commerciali. Così nel 1946 creò Mediobanca con l’obiettivo che potesse svolgere proprio quel ruolo di promotore, ossia di partecipazione al capitale delle imprese, per sopperire alla loro sotto-capitalizzazione.
Proprio grazie all’irrobustimento delle imprese, ben supportate dal sistema bancario, si è realizzata la ripresa di questi ultimi due anni che ha consentito all’Italia di uscire meglio dei nostri competitor europei dalla crisi energetica.
Ma c’è un concetto particolare che Mattioli ha introdotto, un concetto fondamentale per chi oggi guida una banca: il perseguimento dell’interesse generale. E Intesa Sanpaolo, che ha robuste radici nella sua Comit, sotto la guida di Carlo Messina è diventata la banca che più di ogni altra ha fatto propria quell’insegnamento ampliandone il raggio di attività a sostegno di famiglie, imprese ma soprattutto giovani e più bisognosi senza peraltro nulla togliere a dipendenti e azionisti, grazie a una profittabilità elevata e sostenibile. Giusto l’esempio: consapevole di tale ruolo, di recente per attenuare il forte impatto causato dall’inflazione su bilanci e carrello della spesa, Intesa Sanpaolo ha stanziato a favore di imprese e famiglie circa 30 miliardi. Ciò è stato possibile anche perché abbiamo fatto nostri gli insegnamenti di Mattioli favorendo quotidianamente, attraverso il nostro operato, l’interesse generale.
Ma quegli insegnamenti non sarebbero arrivati a noi se gli eredi diretti del grande banchiere di Vasto – a cominciare da Luigi Arcuti, Francesco Cingano, Giovanni Bazoli e Giuseppe Guzzetti – non ci avessero trasmesso quello stile e quell’ambizione che loro per primi hanno fatto propri.
*Presidente Imi Cib Intesa Sanpaolo