Gli esordi a Zelig, poi la televisione, con programmi come Su la testa!, Scatafascio, Che tempo che fa, Propaganda Live, e i libri, Lettere d’amore. Perché le donne vogliono l’uomo che nel parlare esagera, Il verro ruffiano, Il bambino che faceva digerire gli orsi. Appunti sulla diseducazione del fanciullo… Questo è il mondo della comicità di Maurizio Milani. Ovvero Carlo Barcellesi, nato a Milano il 20 maggio del 1961.
Maurizio Milani, non è nato nella sua Codogno?
«Sono nato alla Macedonio Melloni. Era un sabato, e mia mamma era in giro a fare spese a Milano con sua sorella, mia zia Rosanna. Sono rimasto solo per due giorni, ma sul documento c’è scritto Milano, e per fare l’estratto di nascita devo venire in via Larga».
Però lei è di Codogno.
«Sono cresciuto qui, e ora faccio la vita del pensionato… Poi sono tornato a Milano perché ho fatto il Carabiniere, per due anni».
Come è finito in caserma?
«Dopo l’Istituto agrario mi sono iscritto a Scienze agrarie, ma non ho finito per via della matematica. Così sono andato nell’Arma e mi sono fermato, come ausiliario: avevamo la divisa kaki in estate, e mi piaceva, prendevo 700mila lire al mese. Forse sarebbe stato meglio rimanerci qualche altro anno, ma mia mamma era preoccupata, così sono tornato a casa, a fare il rappresentante di enciclopedie porta a porta».
Il rappresentante?
«Ma sì, roba da matti. Fino a che sono andato a fare il provino a Zelig, nell’86: lì facevo un po’ il comico e un po’ il venditore di auto».
Come è arrivato a Zelig?
«Avevo questa indole qua, del resto in ogni classe c’è sempre uno più simpatico, quello che fa più ridere. Così cercai il numero del Derby, per fare il cabaret. Avevo 25 anni. E invece trovai il numero di Zelig, quello per prenotare».
E poi?
«Mi rispose Giancarlo Bozzo. Gli dissi: Vorrei fare un provino. E lui: Abbiamo appena deciso di aprire i provini al pubblico, venga mercoledì 17 novembre. È in un cortile, sopra c’è viale Monza».
Come andò?
«Arrivo alle 11, credo, e ci sono il mangiafuoco, il giocoliere, quello in tutina col leggío tipo Dario Fo, quelli che fanno battute… Io mi spavento: non avevo preparato niente».
E quindi?
«Dico: Non ho preparato niente. Sono al posto di mio cognato che è scivolato dalle scale. Mi hanno richiamato, per fare dieci minuti prima dell’artista in cartellone. C’era Giobbe Covatta. E poi mi chiamarono Ghezzi e Giusti a Raitre: c’eravamo io, Riondino e Cicciolina che si spogliò in diretta, e allora basta dirette. Lo registravamo. E poi ho incontrato Paolo Rossi e a quel punto avevo deciso di fare quel lavoro lì, perché si guadagnava bene, a fare il comico…»
E Zelig?
«Ho fatto più di mille serate, anche ottanta in un anno. Certo, il vecchio Zelig per alcuni è un teatro piccolo, ma io non sono uno da grandi teatri. Ho un pubblico molto qualificato, che mi stima, fra i primi Giuliano Ferrara…»
Ma?
«Dicono: le azioni si pesano ma non si contano. Ma gli spettatori sì. E io ho avuto un successo più di critica, che di pubblico. A volte per strada qualcuno mi dice: ma lei non mi fa ridere. E io: va bene, me ne farò una ragione».
Che tipo di comicità è la sua?
«Faccio un genere che hanno definito humour inglese, un po’ spiazzante, non da villaggio turistico: sono monologhi di parola che tengono bene la scrittura. Come i libri, che sono monologhi teatrali messi su carta».
La sua forza?
«Un elemento totalmente estraneo a quei provinanti di mestiere, che avevano fatto le scuole di teatro: tutti uguali. È come l’orinatoio di Duchamp: lo decontestualizzi e lo metti in una galleria d’arte… Gino e Michele, e Bozzo, hanno visto questo in me: una roba fora dal màs, che aveva una sua originalità e non era dozzinale, come gli imitatori o i maghi pasticcioni».
In che cosa consiste l’originalità?
«Nell’avere un linguaggio, allora mio malgrado, nel senso che non ne ero consapevole, da stand up comedy, all’americana. È un linguaggio che non è satira politica, non è niente, un po’ teatro dell’assurdo».
Dove trova gli spunti?
«Leggo molto. E poi a me piace dire, come alibi, che mi faccio condizionare da quello che sento in tv, e non distinguo fra telefilm e inchieste… Del resto anche Giulio Scarpati, quello del Medico in famiglia, ha raccontato che più di una volta la gente lo ha fermato per strada, a Roma: Dottore, ho la sciatica, che cosa mi consiglia? Gente che vota, eh. Ecco, io gioco su questo, anche. Il povero Jannacci diceva: la televisiùn l’ha gà la forza di un leùn, e aveva ragione».
Che altro?
«I fidanzamenti. Perché l’uomo tende a non volere responsabilità, ma poi si lascia trascinare, anche se vorrebbe rimanere solo, come l’orso, che lascia la prole a mamma orsa e se ne va in giro a ciulare il miele… All’orso dà fastidio tutto, e così è l’uomo: si fidanza, ma vuole tornare a casa propria; lei invece vuole fare la spesa e andare al lago, e così lui si rompe le scatole e guarda un’altra. Non è affidabile, purtroppo».
E alla fine?
«Alla fine ti vanti con le ragazze per fare colpo, ma in realtà non ti interessa: quello che vuoi è andare a pescare e lanciare petardi allo stadio, e fare atti di teppismo. Invece vai a pranzo dai parenti di lei, e vorresti scappare. Se i figli sono sistemati, eh… non so se sia un reato. Ma vorresti andare in un residence in Liguria, pagando solo in contanti. Il fatto è che ci vuole un coraggio da leoni».
Come vede il mondo il comico Milani?
«Di solito il comico è spaventato. La paura è l’elemento determinante di tante azioni e intuizioni. Ho avuto colleghi con attacchi di panico prima di salire sul palco, che poi sono andati benissimo. E questo propellente, che è la paura, poi permane anche nelle cose normali, e diventi ipocondriaco, come spiega Woody Allen».
La sua arma segreta?
«Dire che son pederasta. Anche autodiffamarmi mi piace molto. Vai in caserma e dici: ho fatto io la rapina. Devi essere bravo a fornire i dettagli, però, perché gli inquirenti conoscono i mitomani».
Chi la fa ridere?
«Cinico Tv, Ciprì e Maresco, il grottesco, Brutti sporchi e cattivi con Nino Manfredi nelle baraccopoli di Roma, e Woody Allen. E poi Vito del Gran Pavese Varietà, Nino Frassica mi fa molto ridere, Cochi e Renato. Paolo Rossi no, lo dicevo solo per lavorare. È che come uomo sono anche molto falso. Ho sempre fatto il ruffiano e il delatore… Mi piace fare la spia».
Ma l’obiettivo qual è?
«Far innamorare le ragazze. Perché diciamocelo, noi ci fidanziamo se una è bella, ma la donna guarda di più se la persona è interessante…».