Non so con quale emozione l’avrebbe vista, la mostra che io volevo per lui, a Roma, per il compimento del suo centesimo anno. Lui ci è arrivato, a 100 anni, il 28 ottobre scorso. Noi siamo in ritardo. Lo ricorderemo alla Galleria d’arte moderna di Roma il prossimo anno, il primo della sua nuova vita in quell’aldilà che ha immaginato in ogni suo dipinto.
Carlo Guarienti è stato l’ultimo pittore metafisico, così lontano e discreto che nessuno dei suoi familiari, vivi nel suo mondo, ha dato la notizia della sua partenza. Così come ha vissuto, è tutto nelle sue opere. È il pittore con cui ho avuto più stretti rapporti, per più di quarant’anni.
Credo che tutto sia iniziato al tempo della mia monografica su Domenico Gnoli, il più giovane e il più fortunato degli artisti che si erano mossi nello stesso spazio, senza accomodarsi a mode e tendenze, in territori impercorsi, rari e visionari: Gustavo Foppiani, Gaetano Pompa, Enrico d’Assia, Stanislao Lepri e, prima di loro, Balthus, Leonor Fini e Fabrizio Clerici. Contigui, in un altro spazio, stavano Gianfranco Ferroni e Piero Guccione. Di ognuno di loro ho scritto come di solitari in una notte buia e terribile, popolata di fantasmi. A parlarmi di Guarienti erano stati Giorgio Soavi e Ezio Gribaudo. Tutto era partito con la mostra di Balthus alla Biennale di Venezia, fortemente voluta da Luigi Carluccio contro tutti, davanti a una critica asservita e incapace di capire.
Fu più facile di lì arrivare a Gnoli e a Guarienti cui dedicai la mia seconda e la sua prima monografia nella collana dei grandi pittori moderni dei Fratelli Fabbri, diretta da Gribaudo. Si apriva una nuova strada, e Carlo sapeva ben riconoscere la grandezza di Balthus, con il quale condivideva la ammirazione per la grande pittura italiana da Piero della Francesca a de Chirico.
Nel 1981 avrei presentato a palazzo Grassi un giovane sconosciuto e visionario, a lui affine: Luigi Serafini con il suo Codex. Un altro segnale c’era stato nel 1982 con la mostra di Clerici a Ferrara, curata da Federico Zeri, a Palazzo dei Diamanti. Anche per Clerici era stato necessario un papa straniero: Leonardo Sciascia. Del 1983 è il mio libro su Gnoli. Del 1985 la riscoperta del grande ferrarese Antonio da Crevalcore e, parallelamente, il libro su Carlo Guarienti.
Intorno a questi principi sono nati pensieri, incontri e una lunga amicizia; e non potrò dimenticare, insieme alle passioni e alle insofferenze, i momenti di riflessione sull’arte e sulla vita. La proiezione internazionale della sua opera attraverso un mercante esigente e difficile, attento all’arte antica, come Jan Krugier, lo rendeva distante e imperturbabile, raccontasse dei restauri di Ilaria del Carretto di Jacopo della Quercia, o della cappella Sistina, degli affreschi di Schifanoia o delle sue partite di tennis ad Ansedonia con Gaetano Pompa, troppo presto perduto, o del dimenticato Franco Gentilini, o di Gnoli, morto a soli 37 anni e tenuto vivo dalla madre disperatamente innamorata, Annie de Garrou, moglie del grande storico dell’arte Umberto Gnoli. E i pensieri su Savinio, su de Chirico, maestri di sogni. E la Domus aurea e lo studiolo di Augusto, e la mirabile invenzione del Triangolo Barberini a Palestrina.
Carlo era curioso di tutto, ed era serio e felice nel chiamarmi per un articolo, rigorosamente del Corriere della Sera, sulla questione palestinese, o su un restauro sbagliato, o su uno scrittore amato. Poteva essere Montaigne o Pascal, Cesare Garboli o Pietro Citati. Di lui avevano scritto Giuseppe Ungaretti, Raffaele Carrieri, Giorgio Soavi, André Paul Édouard Pieyre de Mandiargues, Alain Tapié .
Pochissimi artisti sono stati capaci di inventare mondi nuovi, partendo da una realtà ritrovata, attraverso il sogno, la morte, l’assenza. In alcune sue vedute si avverte, come dietro un vetro, l’intuizione di un altro mondo, di memorie e di fantasmi. Nulla lasciato al caso. Oggi che non c’è più, se non dentro di noi, oggi che non potrò più ascoltare le sue parole ferme e ansiose nelle telefonate, o andarlo a trovare costretto in poltrona, ma mobile negli occhi e nella testa, mi viene di ricordarlo accostandolo a Chopin nella interpretazione poetica di Gottfried Benn, che avrebbe certamente amato e sentito consono a sé e al suo pensiero, alla sua idea dell’arte.
«Conversatore avaro, le opinioni non erano il suo forte, le opinioni non vanno mai al sodo, s’agitava quando Delacroix illustrava teorie, quanto a lui non avrebbe saputo spiegare i suoi Notturni. Debole amante; un’ombra a Nohant dove i figli di George Sand rifiutavano i suoi consigli pedagogici. Tisico in quella forma, con emottisi e cicatrizzazioni, che tira in lungo; morte tranquilla a differenza d’una con spasmi e parossismio per salva di colpi: spinsero il piano (Erard) vicino alla porta e Delphine Potocka gli cantò nell’ora estrema il Lied di una violetta. Andò in Inghilterra con tre pianoforti: Pleyel, Erard, Broadwood, la sera suonò per 20 ghinee, un quarto d’ora, da Rothschild, dai Wellington, a Strafford House e davanti a innumerevoli Ordini della Giarrettiera; incupito di stanchezza e di morte ritornò a casa in Square d’Orléans. Poi brucia i suoi schizzi, i suoi manoscritti, che non ci fossero resti, frammenti, annotazioni, questi indizi rivelatori – alla fine disse: Le mie opere sono complete nella misura di ciò che mi era dato di raggiungere. Ogni dito doveva suonare secondo la sua conformazione, il più debole è il quarto (solo un fratello siamese del medio). Quando attaccava, posavano sul mi, fa diesis, sol diesis, si, do. Chi di lui mai sentì certi preludi, sia in ville che in alte valli sui monti oppure da porte spalancate su terrazze per esempio in un sanatorio, difficilmente potrà dimenticarlo. Mai composto un’opera, mai sinfonia, solo queste tragiche progressioni per convinzione d’artista virtuoso e con una piccola mano».