«Il governo è disposto a ricercare una soluzione, ma la stessa non deve tradursi in un sistema eccessivamente complesso e potenzialmente contraddittorio». Così il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha spiegato la posizione italiana sulla riforma del Patto di Stabilità nell’audizione di ieri alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. «La fissazione di un ritmo di riduzione minima del debito e di un obiettivo massimo di deficit – ha aggiunto – deve, per così dire, salvaguardare la prudente gestione del quadro di finanza pubblica nazionale, ma non dovrebbe trasformarsi in ulteriori stringenti regole che limitino in maniera eccessiva le politiche di bilancio dei Paesi europei».
Il messaggio è molto chiaro: l’Italia è favorevole a una riforma del Patto che contempli una riduzione del disavanzo e dell’indebitamento, ma non quella proposta dalla Germania. «La posizione negoziale che stiamo tenendo è di disponibilità all’introduzione di salvaguardie sul debito e sul deficit, ma solo a condizione che esse non siano troppo stringenti» in quanto «potrebbero riproporre, se non addirittura complicare, uno schema che ha mostrato limiti e che le stesse istituzioni europee hanno dichiarato di voler superare». Se non si va verso modifiche più soft, tornerà il vecchio Patto con buona pace di tutti i partner europei.
Insomma, chiedere di ridurre il debito/Pil dell’1% annuo per 7 anni e, contestualmente, riportare il deficit/Pil al 3% correggendolo dello 0,5% l’anno per poi abbassarlo all’1,5% non è fattibile. Il pressing tedesco per il ritorno all’austerity, portato avanti dal ministro delle Finanze, Christian Lindner, sta indispettendo non solo l’Italia, ma non pochi partner, inclusa la Francia che inizialmente si era avvicinata alle posizioni di Berlino e ora ha bisogno di spendere. La traballante maggioranza che sostiene il cancelliere Olaf Scholz, dopo che la Corte costituzionale di Karlsrühe ha bocciato 770 miliardi di fondi speciali, deve far finta di essere rigorosa anche con gli altri Paesi europei per non perdere credibilità. Con un piccolo particolare: agli altri cittadini europei interessa poco ciò che accade in Germania.
Ecco perché Giorgetti ha sottolineato che la «condizione imprescindibile» è un «sufficiente spazio agli investimenti per la transizione digitale ed ecologica» nella nuova governance economica e che, soprattutto, «il primo ciclo di applicazione delle nuove regole consenta a Paesi quali l’Italia, che hanno concordato ambiziosi Pnrr, di poter accedere all’estensione del periodo di aggiustamento a sette anni». Tutto questo, ha precisato, «senza l’imposizione di ulteriori condizionalità, ma solamente in base all’impegno dello Stato membro a continuare lo sforzo di riforma». L’Italia, ha proseguito il ministro dell’Economia, «intende ridurre il debito in maniera realistica, graduale e sostenibile nel tempo, in un assetto che protegga e incentivi gli investimenti». In un simile contesto «le regole fiscali e di bilancio non sono il fine ma il mezzo», ha concluso perché «l’Europa non può immaginare di essere competitiva senza investimenti». Insomma, non si può imputare al governo Meloni di voler perseguire politiche economiche allegre perché, ha sottolineato Giorgetti, «ridurre l’elevato debito pubblico e i disavanzi eccessivi è un obiettivo ed è nell’interesse generale del Paese». Meno debito, infatti, significa meno spesa per interessi e anche tassi più bassi per i Btp.
Di qui l’ultimo segnale di buona volontà verso Bruxelles e verso Berlino. «La procedura di adozione» delle riforma richiede «l’unanimità tra gli Stati membri» e, poiché «è giusto che intervenga il Parlamento, perché è il Parlamento che decide, sarà il Parlamento a dire se l’accordo negoziato dal governo italiano sia da approvare». Lo stesso vale per la riforma del Mes. «Noi non abbiamo mai ricattato nessuno, noi non ricattiamo nessuno», ha concluso Giorgetti, ma che ci sia «una correlazione tra Mes e Patto di stabilità è nei fatti».