Anzitutto deve essere sostenibile. È il tasto sul quale sia la premier Giorgia Meloni sia il ministro Giancarlo Giorgetti, parlando nel nuovo Patto di Stabilità, hanno insistito con convinzione crescente nelle ultime settimane. E sostenibile vuol dire che quanti vi aderiscono sanno fin d’ora che potranno rispettare i nuovi limiti imposti. Ma se così non è, se le nuove regole sono state concepite da altri al punto che la loro osservanza somiglia a una scommessa, che senso ha sottoscriverle per un Paese consapevole delle proprie debolezze? Se sappiamo in anticipo che i percorsi di rientro del debito o di riduzione del deficit (entrambi concepiti da altri) sono per l’Italia difficilmente percorribili data la situazione di partenza, sottoscrivere quel Patto significherebbe mentire sapendo di mentire, esponendoci peraltro a rischi altissimi di violazione delle nuove norme con grave pregiudizio per la nostra immagine sui mercati e quindi per il nostro bilancio. A meno di un ripensamento da parte dei fan del rigorismo – Berlino e satelliti in particolare – meglio perciò soprassedere e tornare al vecchio Patto che, sebbene abbia procurato non pochi danni, è perlomeno terra conosciuta, con le sue rigidità e le sue flessibilità.
Bivio cruciale per il futuro del nostro Paese. E, vista la delicatezza della decisione, il fatto che Giorgetti abbia deciso di chiedere oggi un conforto preventivo alle Commissioni Bilancio di Camera e Senato in sessione congiunta è segno di grande sensibilità, ma anche di consapevolezza che l’eventuale «no» alla proposta sarebbe un segnale forte di rottura con i partner e quindi è giusto che il Paese si presenti il più possibile compatto all’appuntamento.
Ora, noi non sappiamo se nella notte di giovedì i ministri economici dell’Unione convocati in seduta straordinaria per assumere una decisione (che ci auguriamo finale) avranno la saggezza di aprire alle istanze italiane, dopo aver consentito a Berlino e Parigi di ritagliarsi all’interno del Patto una comfort zone di regole su misura. Naturalmente non cesseremo di sperare: un accordo di soddisfazione generale entro la fine dell’anno sarebbe il segno di una Unione che davvero intende essere tale. Ma allo stato la bozza sul tavolo prevede – fermi restando i principi cardine fissati nel Trattato di Maastricht – un taglio annuale del debito dell’1% per il Paese che sfora il 90% del Pil (l’Italia è al 143%) e dello 0,5% per quello che ha un rapporto debito-Pil tra il 60% e il 90% (Germania e satelliti); accanto, l’impegno a tracciare percorsi di rientro del debito in quattro-sette anni. A titolo di salvaguardia, è poi giudicato necessario un aggiustamento strutturale minimo di almeno lo 0,5% del deficit per chi supera il 3% del Pil, con l’obiettivo di un assestamento nel tempo all’1,5%.
Un impianto che all’Italia, da sempre restia all’idea di target numerici uguali per tutti, continua a non convincere per la semplice ragione che i suoi numeri di partenza sono inconciliabili con i percorsi imposti, a meno di una «cura greca» che in Italia nessuno vuole proporre e nessuno vuole subire e che fatalmente porterebbe a una rottura politica insanabile.
Per non dire del fatto che nella bozza del nuovo Patto continua a mancare l’agognata «golden rule», che consentirebbe di scorporare dal calcolo del deficit la spesa per gli investimenti green e digitali, e non solo per quelli destinati alla difesa. Senza contare che l’incrocio di numeri sembra resuscitare, anche nelle critiche mosse dalla Bce, gli aspetti più alienanti del vecchio Patto, persino peggiorandoli. Un’osservazione, questa, che chiede una riflessione in più ai parlamentari che questa mattina sono chiamati a valutare il resoconto sulla governance europea del ministro dell’Economia.