«Don Carlo dramma magnifico, ma poco spettacolare, forse. Bellissima l’apparizione di Carlo Quinto e la scena di Fontainebleu. Mi piacerebbe che ci fosse come in Schiller, una piccola scena fra Filippo e l’Inquisitore, questo vegliardo cieco, così come un duetto fra Filippo e Posa».
Questo passo di una lettera di Giuseppe Verdi al direttore dell’Opéra di Parigi, Emile Perrin, testimonia quanto il musicista conoscesse il famoso dramma di Friedrich Schiller, ben prima della commissione per la sua riduzione operistica in occasione dell’Esposizione Universale di Parigi del 1867.
Don Carlo, l’opera che quest’anno torna ad inaugurare la stagione del Teatro alla Scala, ebbe una tormentata e contrastata prima apparizione in lingua francese (il testo fu approntato dall’impresario Camille du Locle, rimasto solo dopo la morte del drammaturgo Joseph Méry, con la vigile e fertile collaborazione del musicista). L’esito non fu troppo negativo, almeno stando al numero delle repliche che furono 47. Senza che molti se ne accorgessero Verdi aveva eliminato dal grand opéra l’eccesso, lo sfarzoso guazzabuglio fine a sé stesso, realizzando sette (otto) quadri che portano una vicenda storica a un verosimile più bello del vero senza sbavature.
L’Autore aveva la sensazione che il primo giudizio sarebbe potuto cambiare, come avvenne puntualmente nelle successive riprese, realizzate nella traduzione italiana di Achille de Lauzières a Londra e Bologna, sotto la direzione ben più autorevole di quella approntata dal francese Georges Hainl alla grand boutique (l’Opéra), direzione d’orchestra assicurata rispettivamente da Michele Costa e dall’astro nascente Angelo Mariani.
Ma Verdi non era ancora soddisfatto e nel 1883 cominciò un lavoro di revisione con l’aiuto del librettista di Aida, Antonio Ghislanzoni, modifiche confluite nell’esecuzione alla Scala del 1884.
In questa versione fu eliminato il fastoso Ballo della Regina che nel terzo atto soddisfaceva i ballettomani parigini; cadde anche l’intero primo atto nel parco di Fontainebleu, dove il protagonista, Carlo Infante di Spagna incontra la promessa sposa, figlia del re di Francia, Elisabetta di Valois.
L’amore reciproco sbocciato nel bosco gelato viene subito spezzato dall’annuncio a sorpresa che Spagna e Francia suggelleranno la pace con il matrimonio di Elisabetta non con Carlo, ma con il padre Filippo II.
Altri punti furono completamenti mutati con grande arricchimento della nuova versione: comparve un meraviglioso preludio notturno alla scena del giardino ad apertura del terzo atto; fu modificato il grande incontro «politico» tra Filippo II e il marchese di Posa che chiede pace nelle Fiandre represse, di cui Verdi diede non meno di quattro versioni complessive; fu ristretta molto la sommossa che segue l’assassinio di Posa e chiude il quarto atto con il popolo, il re e i grandi di Spagna che si inchinano all’autorità del Grande Inquisitore, salvatore della corona.
Quest’opera rappresenta un unicum nella produzione di Verdi non solo perché impregnata di un pessimismo quasi assoluto, dove i sentimenti umani sono soffocati dalla ragione di Stato, una morsa letale in cui la monarchia è il braccio criminale della Chiesa che ne autorizza il potere. I suoi personaggi principali non sono rubricabili fra buoni e cattivi, ma seguono un’estrema mobilità caratteriale e laceranti contraddizioni.
Il monarca assoluto Filippo II non è solo il tiranno oppressore delle Fiandre, ma ambirebbe ad aprirsi con un amico e ad essere amato dalla consorte; il figlio ribelle Carlo è dilaniato fra l’amore «colpevole» per Elisabetta divenuta matrigna, l’affetto fraterno per l’amico Posa e il desiderio di ergersi a difensore dei diritti dei sudditi massacrati dal padre; il marchese di Posa si barcamena fra l’amicizia fraterna per l’Infante e le confidenze del sovrano; la principessa di Eboli, amante respinta di Carlo è una vendicatrice piena di rimorsi.
Nessuno ha più quella nettezza di categorie tipiche della moralità popolare verdiana: Filippo II tutto deve sacrificare alla ragione politica, prendendo decisioni contro volontà come quella di uccidere Posa, il solo che ammira per la sua integrità; la Principessa Eboli, di Carlo innamorata e gelosa fino a denunciarne al re di cui è amante la tresca, si pente sinceramente di aver infangato la nobile e incolpevole regina, prima che quest’ultima le commini l’esilio per la calunnia.
Le peculiarità di quest’opera spiegano la sua minore popolarità e la sua miracolosa grandezza, come ha chiarito il grande musicologo Fedele d’Amico: «la musica, semplificata l’azione rispetto al testo della fonte, riesce a riconquistarne i sensi più complessi sul suo proprio piano e a un’altezza, almeno negli ultimi due atti, pressoché shakespeariana, nutrita d’un mistero cui Schiller non arrivò».