Difficile definire cosa sia stato, esattamente, Umberto Eco nella nostra recente storia culturale. Un pioniere. Uno scienziato. Uno scrittore. Un affabulatore. Un pazzo che si credeva Umberto Eco. Laureatosi con una tesi sull’estetica di Tommaso D’Aquino, indubbiamente cattolico di formazione, introdusse da noi lo studio della semiotica, fece conoscere all’Italia figure immense e tuttavia sconosciute, come Roman Jakobson.
Inventò il Dams di Bologna (Discipline Arte Musica Spettacolo) intuendo per primo come i diversi linguaggi sarebbero andati sempre più contaminandosi, e che l’arte sarebbe sempre più vissuta di queste contaminazioni. Ma era anche, così dicono tutti, un uomo di grande simpatia, barzellettiere, conversatore sempre alla mano, per nulla borioso né geloso della propria intelligenza.
Poi un giorno, non più giovanissimo, scrisse un romanzo, Il nome della rosa, che suscitò qualche perplessità nel nostro mondo letterario prima di diventare, grazie all’eco del successo all’estero, il più grande best-seller della nostra storia.
Il libro lo rese ricco e celebre oltre ogni aspettativa e, sospetto, lo obbligò moralmente a diventare quello che solo per gioco aveva immaginato: un romanziere. Scrisse altri romanzi, accettando un destino nuovo, inedito, come si accetta una seconda vita meno rubricabile sotto il titolo di qualche specialismo (linguista, semiologo, docente), insomma una vita più strana. Non erano romanzi belli, ma erano romanzi suoi, e questo non è poco. Romanzi (o nonromanzi) scritti secondi un metodo esclusivamente personale: Eco popolò la sua letteratura con altra letteratura (come la Tour Eiffel di Las Vegas) organizzandola però come un trattato di semiotica.
Questo strano, grande personaggio ha offerto di sé stesso un bel selfie nelle Confessioni di un giovane romanziere (La Nave di Teseo, pagg. 220, euro 20). Un libro letto il quale i dubbi che Eco capisse davvero qualcosa di letteratura restano, intatti; eppure un libro bello, che squaderna la grande passione, il grande demone di quest’uomo, che non fu né il romanzo, né la semiotica, né la linguistica, ma l’Interpretazione. Questa fu la sua malattia, che si manifestò non tanto nella forma dell’ossessione quanto in quella del gioco, con il mondo come con sé stesso.
Nel raccontare di sé come scrittore Eco non passa nemmeno di lontano dalle parti dell’introspezione, della coscienza. Tra Proust e Joyce sta dalla parte di Joyce, che non cura l’io come un tesoro ma lo rovescia come un piccolo vaso da notte sull’immensa spiaggia dell’oceano, sulla battigia, alle prime luci dell’alba.
Eco non si racconta, non si confessa: gioca a interpretare il mondo, di cui è parte quel piccolo pezzo – né più né meno lontano da lui di tanti altri – che è lui stesso. Confessioni di un giovane romanziere non è propriamente né un libro di teoria letteraria, né di critica, né di linguistica, quanto piuttosto un volume, uno dei miliardi possibili, nella grande Biblioteca dei Bestiari. Sulla scia dei Joyce e del suo Ritratto dell’artista da giovane, cui avevano già fatto seguito ritratti dell’artista da cucciolo (Dylan Thomas), o da saltimbanco (Starobinski), e degli infiniti altri possibili (ritratto dell’artista da cavalletta, da speleologo, da eucalipto, da pugile ecc.), Eco ci offre questo scanzonato ritratto dello scrittore da semiologo, o del semiologo da scrittore, come preferite, senza curarsi di mettere insieme le due cose. Ma passata l’ammirazione per la sua intelligenza e il divertimento per questa travolgente necessità di giocare con le interpretazioni, resta qualcosa di più: resta la sincera difficoltà di un uomo nato novant’anni fa, che ha visto la storia trasformarsi sempre più in un labirinto e lo ha accettato come si accetta un destino, anche se in questo labirinto tutti gli strumenti offerti alla nostra conoscenza non sono sufficienti a incontrare davvero noi stessi. Ho sempre avuto la sensazione che l’ansia d’interpretazione di Eco celasse la voglia di imbattersi in ciò che si sottrae a ogni interpretazione.
Parlando dei personaggi dei romanzi, Eco ne sottolinea l’imperfetta visione del loro mondo come specchio della nostra imperfetta visione di questo mondo, e in questo vede il senso stesso della Letteratura. Nel gioco del mondo ci sono crepe, pezzi che non combaciano. Questo lo interessava profondamente. E questo pare a me il suo ritratto definitivo: quello di un umanista.