“Io immobilizzata e violentata dal finto regista. Vi racconto il mio incubo”

"Io immobilizzata e violentata dal finto regista. Vi racconto il mio incubo"

“Non è facile denunciare una violenza subita, ma bisogna farlo”. Lo dice a ilGiornale Marilina Marino, 31 anni, una delle 12 aspiranti attrici che denunciò il “finto regista” Claudio Marini per violenza sessuale. Lo scorso venerdì, il Tribunale di Roma ha condannato in primo grado il 51enne a 11 anni e 9 mesi. Secondo l’accusa, il presunto impresario avrebbe abusato delle giovani donne con la promessa di un ruolo in film mai realizzati.

Marilina Marino, le va di raccontare cosa è successo?

“Sì. Anche se non le nego che è dura per me rivivere quei momenti. Nonostante siano passati alcuni anni, resta una ferita ancora aperta. Subire violenza è un trauma”.

Come ha conosciuto Claudio Marini?

“Nel 2019 avevo risposto a un’offerta di lavoro per un casting, per un film chiamato ‘Miele Amaro’. Dopo aver inviato curriculum e foto all’email segnalata, vengo ricontattata per un colloquio conoscitivo. Mi presento all’appuntamento il giorno 09/10/2019 presso quello che mi viene presentato come l’ufficio di produzione, sito al Palazzo di Arte Moderna in Piazza Guglielmo Marconi, all’Eur. Arrivata in sala d’attesa, trovo altre ragazze e due segretarie. Una volta arrivato il mio turno, scambio quattro chiacchiere col presunto regista. Mi fa le solite domande di rito: parliamo delle mie pregresse esperienze lavorative e del film che intende realizzare. Poi mi congeda col classico ‘le faremo sapere'”.

Nota qualcosa di strano durante il colloquio?

“No, assolutamente. All’apparenza sembrava una situazione normale, tranquilla. Abbastanza professionale”.

Poi cosa accade?

“Pochi giorni dopo vengo contattata per un provino su parte: avrei dovuto recitare alcuni stralci del copione per il ruolo che, eventualmente, mi sarebbe stato assegnato. Il regista mi dà appuntamento in un fast food, vicino alla fermata della metro. Essendo un posto pubblico e affollato, non mi insospettisco: penso che vorrà spiegarmi più approfonditamente la scena ed, essendo una piccola produzione, non vuole affittare un ufficio soltanto per un colloquio. Quando ci vediamo, mi chiede di raggiungere con la sua auto l’ufficio, non distante dal locale”.

E lei?

“Gli chiedo spiegazioni. Lui risponde dicendo che la sede di questo ufficio sarebbe stata scomoda da raggiungere se avessi usato i mezzi pubblici per spostarmi, ma è davvero a pochi minuti di strada da lì. Inoltre, mi dice che in ufficio c’è tutta l’attrezzatura professionale per poter riprendere al meglio il provino. Salgo in auto, anche se inizio ad essere più rigida nei suoi confronti e a pormi qualche domanda”.

Durante il tragitto a cosa pensa?

“Cerco di capire dove stiamo andando, il percorso che stiamo facendo. Poco dopo raggiungiamo questo ufficio, che scopro essere un piccolo appartamento al piano terra, in un quartiere bene di Roma. Ma noto subito qualcosa di strano”.

Cioè?

“Innanzitutto non ci sono altre persone, né attori né assistenti. E Marini, una volta dentro l’appartamento, chiude la porta d’ingresso a chiave. Poi mi dà da leggere la scena che avrei dovuto interpretare”.

Quando capisce che non si tratta di un vero provino?

“Subito dopo. Lui mi fa notare che c’è la scena di un bacio nel copione. Gli dico che non posso interpretarla visto che non ci sono altri attori. In buona sostanza, mi rifiuto di farla”

Marini come reagisce?

“Mentre sono sul divano a leggere, una volta giunta al momento della sceneggiatura in cui era previsto il bacio, mi immobilizza per i polsi e mi dà un bacio contro la mia volontà” .

Cosa prova in quel momento?

“Mi sento oppressa. Lui è robusto, sento il peso del suo corpo su di me, greve come un macigno. Per fortuna ho abbastanza sangue freddo da non lasciarmi paralizzare dalla paura. Reagisco, e in qualche modo riesco a liberarmi dalla morsa. A quel punto mi piazzo davanti alla porta d’ingresso e gli dico che il ‘provino’ per me si è concluso”.

E poi?

“Non potevo uscire perché la porta era chiusa a chiave. Allora mi guardo attorno per capire come difendermi, qualora mi avesse aggredita. Cerco di mantenere i nervi saldi e ponderare la reazione per evitare che la situazione degeneri”.

A quel punto che succede?

“Lui temporeggia. Ho avuto la sensazione che si divertisse a tenermi sotto scacco. Poi decide di riaccompagnarmi al fast food”.

Ha avuto paura durante il percorso?

“Sì, ma non potevo fare diversamente perché ancora non avevo ben capito dove fossimo. Volevo solo che quell’incubo finisse alla svelta. E per fortuna è andata bene e ho potuto memorizzare il percorso che avevamo fatto”.

Cosa ha fatto dopo?

“Ho chiamato il mio fidanzato. Non appena è arrivato gli ho raccontato tutto. Abbiamo raggiunto insieme l’abitazione del presunto regista e scattato una foto al civico dell’appartamento in cui mi aveva portato poco prima. Caso ha voluto che incrociassimo la sua auto, quindi abbiamo preso anche la targa della vettura”.

Ha denunciato subito?

“No, non ce l’ho fatta. Mi creda, non è facile denunciare una violenza. Ero spaventata, sotto choc. E temevo fortemente tutto il carico psicologico di quella azione. Avrei dovuto ammettere a me stessa di aver subito una violenza. E in quei casi il senso di colpa è dietro l’angolo”.

Quando ha deciso di denunciare?

“Dopo qualche settimana ho letto il post di un’aspirante attrice che raccontava, in un gruppo social, di essere stata contattata da un regista per un colloquio nello stesso fast food di Roma. Le ho scritto un messaggio in privato per metterla in guardia. La ragazza mi ha detto di aver ricevuto altre segnalazioni analoghe. A quel punto, io e le altre vittime, abbiamo creato un gruppo WhatsApp per raccontarci le rispettive esperienze e supportarci a vicenda. E alla fine abbiamo deciso di denunciare, anche se ognuna con molta difficoltà, ma non volevamo che questa situazione potesse accadere anche a qualcun’altra”.

Quante eravate?

“Otto a Roma. Dodici, comprese quelle di Milano. Tutti ‘racconti-fotocopia’. È stato sconcertante”.

Ha mai più rivisto o sentito Marini?

“No, solo al processo. E le garantisco che per noi vittime non è stato facile testimoniare in sua presenza. Poi, per fortuna, la giustizia ha fatto il suo corso”.

Come ha reagito alla notizia della condanna?

“È stato un sollievo. Peraltro si tratta di una sentenza storica, 11 anni e 9 mesi per violenza sessuale, e sono fiera di aver dato il mio piccolo contributo. Ma le confesso che non riesco più a sostenere colloqui di lavoro con persone sconosciute, anche se proposti dal mio agente. Questa storia mi ha segnato nel profondo”.

Cosa consiglia di fare a quelle giovani donne che si trovano o si sono trovate nella sua stessa situazione?

“Bisogna denunciare, anche se non è facile ricevere solidarietà senza sentirsi giudicate per ciò che si è subito. Quindi è fondamentale circondarsi di persone affidabili, ma soprattutto che non ci colpevolizzino. Parlo di familiari, amici ed eventuali partner con cui confidarsi. La denuncia, specie se sfocia in un processo, ti costringe a rivivere la violenza subita. Pertanto occorre supporto emotivo e psicologico. Alle ragazze dico di tenere gli occhi aperti perché questo tipo di violenza può succedere ovunque, non soltanto nel mondo dello spettacolo. È facile subire molestie nella vita di ogni giorno, anche semplicemente per strada o a un colloquio di lavoro”.

Come si guarisce dal trauma?

“Non sentirsi in colpa è il primo passo per la guarigione della ferita subita. Chi subisce violenza non ha mai colpe”.

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