Il barometro di Bruxelles segna nuvoloso per domani e giovedì. Anche in senso metaforico. Le riunioni straordinarie di Eurogruppo ed Ecofin sulla riforma del Patto di Stabilità potrebbero terminare senza un accordo politico. La Germania ha imposto condizioni sempre più stringenti su taglio di debito e deficit e la Francia, secondo gli osservatori esterni, starebbe cedendo su troppe richieste tedesche, smorzando l’ottimismo della presidenza spagnola, in cambio di un occhio di riguardo sul proprio disavanzo.
La posizione dell’Italia, a questo punto, diventa decisiva per il fronte dei Paesi mediterranei, lasciati per strada dalle ambizioni di grandeur parigine. Ed è per questo che il mandato parlamentare (vedi articolo a fianco) al ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, assume una valenza cruciale perché è l’unico Paese europeo che ha già fatto capire di non essere disposto a firmare un accordo a qualsiasi condizione, che potrebbe diventare una trappola qualora fosse approvata nella versione attuale.
La bozza in discussione prevede il ritorno a una distinzione fra i Paesi con debito superiore al 90% del Pil e quelli con debito/Pil entro la soglia del 90 per cento. Entrambi sono chiamati a stilare piani di rientro di durata quadriennale che possono essere estesi a 7 anni, ma i primi devono tagliare il debito/Pil almeno dell’1% annuo e i secondi solo dello 0,5. A questi impegni si aggiungono quelli di riduzione del deficit per le nazioni che sforano la soglia del 3% del Pil. Ed è su questo punto che il confronto tra i frugali e gli altri è molto serrato. La riforma prevede un aggiustamento primario strutturale dello 0,5% del Pil. In questo caso si calcolerebbe il disavanzo al netto della spesa per interessi, un toccasana per l’Italia che l’anno prossimo spenderà 90 miliardi. La Germania e i suoi alleati chiedono che l’aggiustamento del deficit si completi entro e non oltre i 7 anni massimi concessi sul taglio del debito. E, soprattutto, non gradiscono che nella bozza di riforma siano state inserite clausole di salvaguardia dalla procedura per deficit eccessivo sui «fattori rilevanti», ossia le spese in settori strategici per le politiche dell’Ue. Finora si è discusso in particolar modo degli investimenti per la difesa, ma l’Italia punta a uno scomputo (la cosiddetta golden rule) delle spese per transizione green e digitale. Completati i piani, i Paesi dovrebbero assicurare un deficit/Pil all’1,5% annuo in modo da avere margini in caso di crisi. Lo scontro con la Germania rischia di essere particolarmente duro, soprattutto perché la Francia, pur avendo un debito/Pil al 112% e un deficit/Pil al 4,9%, ha scelto di tenere il bordone a Berlino che, va detto, nei confronti di Parigi non è mai stata intransigente quanto lo è con Roma. Meloni e Giorgetti hanno perciò fatto intendere che non si possono porre obiettivi «non realistici». Con manovre limitate nell’ordine dei 20 miliardi anche rendere strutturale il taglio del cuneo sarebbe impossibile. Senza un’intesa entro la fine dell’anno (che il Parlamento Ue dovrebbe approvare entro aprile, poco prima della sua scadenza), tornerebbe in vigore il vecchio Patto di Stabilità con il suo tetto al deficit/Pil al 3% e il debito/Pil da riportare al 60% a colpi di irrealizzabili tagli del 5% annuo. E, fatto non trascurabile, l’Italia potrebbe non ratificare la riforma del Mes, tanto auspicata da Germania e soci.