La «lezione» di Marco Travaglio (nel tondo), davanti al giudice monocratico di Roma, somiglia un po’ a quella del Marchese del Grillo al popolino romano: «Io so’ io e voi nun siete un c» ( forse era meglio non scriverla, per non rischiare una querela, come Augusto Minzolini).
Il direttore del Fatto quotidiano, nell’aula 27 del tribunale di piazzale Clodio a Roma ha spiegato garbatamente dal suo piedistallo che lui è un maestro nell’invettiva, sa fare satira senza cadere nell’insulto, sa criticare in modo graffiante senza offendere, sa anche dire e scrivere le cose più turpi rimanendo sempre nel lecito. Tipo quel «Minzolingua», appioppato appunto a Minzolini qualche anno fa, per il quale però l’autore è stato assolto. Diritto di satira, il suo.
Quando invece nel 2020 è stato l’altro a dargli del «faccia di c» su Twitter, lo ha querelato, puntando il dito accusatorio e chiedendo un risarcimento di 30mila euro. «Mi sono sentito offeso, aggredito in modo gratuito, questa critica non è, satira neppure», ha detto al pm onorario che gli chiedeva di ricostruire la vicenda.
L’ex direttore del Tg1 e del Giornale ha avuto un bel dire che quella «c» stava per «cerbiatto», animale dai tratti sottili molto somiglianti a quelli di Travaglio, che il senso al più era «faccia di bronzo», alludendo a sfrontataggine e mancanza di coerenza, niente di eccessivo, che insomma era satira anche la sua… Tutto inutile, lui l’ha trascinato in tribunale e ora vuole soldi e condanna.
Succede al culmine di un aspro duello di parole e fioretto tra i due giornalisti che da anni si provocano e confrontano. Quest’ultima faida si risolverà in tribunale, come è già successo in passato a parti inverse. Di complimenti non se ne sono mai fatti, ultimamente uno sul Fatto definiva l’altro «il peggiore successore di Indro Montanelli alla direzione del Giornale» e l’altro dalla prima pagina del nostro quotidiano rispondeva con una frase proprio del fondatore: «Conosco molti furfanti che non fanno i moralisti, ma non conosco nessun moralista che non sia un furfante».
L’imputato Augusto spiegherà le sue ragioni a marzo, cercherà di inserire la frase nel suo giusto contesto, di spiegare i suoi commenti agli articoli dell’altro, nel crescendo che anche la tribuna social impone, quando i commenti dei «tifosi» di uno o l’altro in causa fanno salire il livello di scontro e incitano come nell’arena. Ma intanto, il querelante Travaglio, epigono della critica dura e sprezzante per non dire altro, che i social non li ama e preferisce gli articoli, si fa vittima e insiste molto sul suo stato sfortunato.
Di fronte al piccolo pubblico dell’udienza, a giudice e pm onorari e ai due avvocati, Fabio Viglione per Minzolini e Angela De Rosa (in sostituzione di Caterina Malavenda) per Travaglio, si sente un po’ come in uno dei suoi spettacoli teatrali, in cui rivela a ingenui e miopi cittadini come stanno davvero le cose in questo Paese. Stavolta, che cosa è satira, quella buona che alimenta e nutre le coscienze e che cosa è diffamazione, offesa al buon nome. Lo fa senza eccessi, con un tono piano e paziente, quello del maestro abituato a spiegare cose che conosce bene e da tanto tempo.
La rappresentazione stavolta dura circa mezz’ora, neppure si paga il biglietto. Peccato per i tanti che non ne erano informati.