I razzi di Hamas non martellano più dalla Striscia, dove i bombardamenti israeliani si sono interrotti all’alba del 24 novembre. È il primo breve spiraglio (quattro giorni) dopo 50 giorni di guerra dura costata migliaia di morti. E nel clima teso di una tregua fragile si comincia a intravedere la possibilità di un dopo. Se il premier Netanyahu auspica una “zona cuscinetto” seguita da un’area B in stile Cisgiordania e il segretario generale dell’Onu Guterres esclude “un protettorato delle Nazioni Unite”, Usa e Ue rilanciano la soluzione dei due Stati con l’Autorità nazionale palestinese “rivitalizzata” come leadership politica responsabile.
Uno scenario inattuabile nel futuro immediato di Gaza, secondo Michael Milshtein: “Il popolo palestinese – ci dice l’ex direttore della sezione affari palestinesi dell’intelligence militare israeliana, per vent’anni consigliere presso il Cogat (coordinatore delle attività governative nei territori) – alla soluzione dei due Stati preferisce la prospettiva di vivere insieme agli israeliani, civilmente e con uguali diritti in un unico Stato”.
Da tempo lei aveva messo in guardia dalla minaccia di Hamas, ma non l’hanno ascoltata. Perché?
“Perché la convinzione collettiva che non avrebbe attaccato era molto molto forte. Figure di alto livello politico e militare credevano fermamente che Hamas fosse ormai scoraggiato e che la politica economica adottata nei confronti della Striscia di Gaza avesse davvero portato stabilità”.
Un flop dell’intelligence?
“Non è stato solo un fallimento dell’intelligence, ma anche dei vari decisori politici. Tutti condividevano la stessa “Conseptsia” (che Hamas non avrebbe attaccato Israele perché aveva capito che sarebbe stata una causa persa, ndr). Che l’attacco del 7 ottobre ha dimostrato come totalmente sbagliata”.
Anche la figura di Yhaya Sinwar è stata sottovalutata. Lei, invece, ne aveva già intuito le potenzialità. Cosa ne ha determinato l’ascesa come leader politico di Hamas?
“Una combinazione tra la sua personalità carismatica, la sua immagine di leader che si è speso davvero per la causa (principalmente facendosi 23 anni di carcere) e il suo background sociale come membro appartenente alla comunità dei profughi di Gaza dove è un simbolo della mobilitazione”.
L’obiettivo di Israele, come ribadito da Netanyahu, è smantellare Hamas. Ma come si sradica un’ideologia dal contesto in cui si è sviluppata?
“Non puoi. Puoi infliggere gravi danni ad Hamas, distruggere le sue infrastrutture militari, uccidere la maggior parte dei suoi leader, ma non puoi cancellare un’ideologia così potente dalla mente delle persone. Un tale cambiamento deve essere il risultato di sviluppi interni, non di tentativi esterni”.
Però, ha dichiarato che “siamo lontani da una svolta decisiva nel piegare Hamas”. Cosa sta sbagliando Israele?
“Non sta sbagliando niente. La lenta avanzata è il risultato di una politica cauta che mira a danneggiare il meno possibile i civili palestinesi. Se l’IDF si comportasse come l’esercito di Asad sono abbastanza sicuro che entro 24 ore l’intera Striscia verrebbe occupata e metà della sua popolazione uccisa”.
Non crede che la reazione dura di Tel Aviv, anche a scapito dei civili palestinesi, alla lunga comprometta il sostegno internazionale?
“Non c’è altro modo. Per noi si tratta di una minaccia esistenziale. Ci piacerebbe avere con Hamas una lotta pulita ed equa, esercito contro esercito, ma questa è organizzazione cinica, senza scrupoli, che si mescola deliberatamente alla popolazione e gode quando ci sono molte vittime civili. Io credo che gli Stati Uniti e la maggior parte dei Paesi dell’Ue capiscano la posizione di Israele. Lo stesso non vale, ovviamente, per le comunità musulmane all’estero, che agiscono come enclavi mediorientali nel cuore dell’Occidente”.
Perché la soluzione dei due Stati con Gaza gestita dall’Anp non è praticabile?
“Di certo non subito dopo la guerra, forse a lungo termine. Questo perché di fatto ai palestinesi manca una leadership dominante che possa assumere un chiaro ruolo politico”.
Qual è allora la sua proposta?
“Stabilire a Gaza un’amministrazione, basata su poteri locali come sindaci o leader di Fatah e capi di clan e tribù, che si occupi degli affari civili e formalmente faccia parte dell’Autorità nazionale palestinese. Allo stesso tempo è necessario promuovere negoziati politici con l’Anp e incoraggiare gli stati arabi moderati (come gli Emirati Arabi Uniti e l’Egitto, ma non il Qatar) a partecipare al processo di “riabilitazione” della Striscia”.
Lei conosce bene la società palestinese, soprattutto le nuove generazioni. Crede che ci siano i presupposti perché palestinesi e israeliani possano vivere insieme in un unico Stato?
“Tra i palestinesi non c’è alcuna speranza di raggiungere l’indipendenza o di attuare la soluzione dei due Stati. La popolazione è alienata da chi detiene il potere e preferisce l’idea di vivere insieme agli israeliani, civilmente e con uguali diritti, in un unico Stato. Il 7 ottobre, però, ci ha insegnato che palestinesi e israeliani non possono vivere insieme. In pratica, questo unico Stato più che un sogno ideale sarebbe un sorta di incubo in stile balcanico”.