Roma è uno stupendo, ma degradato museo a cielo aperto dove trovare un taxi è un’impresa. Riad è un’orribile megalopoli appoggiata su un deserto dove senza un taxi non ci si muove di un passo. Ma nessuna delle due immagini serve a spiegare la capitolazione della «città eterna» e l’assegnazione dell’Expo 2030 alla capitale saudita. Soffermarsi su banalità del genere è come credere a Babbo Natale. Soprattutto a 13 anni dalla svendita dei campionati mondiali di calcio al Qatar. Quella svendita ha fatto comprendere anche ai più ingenui che l’assegnazione di eventi come l’Expo si svolge nell’ambito di giganteschi e corrotti «mercantifici» globali. Lì la bellezza del sito, o l’efficienza di chi dovrà trasformarlo in grande teatro internazionale, contano poco o nulla. A far la differenza intervengono fattori ben più decisivi.
Al primo posto vi sono il denaro e la spregiudicatezza indispensabile a «pilotare» i favori dei delegati che decideranno l’assegnazione. Non a caso nel 2010 il Qatar spese solo per questo circa 5 milioni di dollari. Il secondo fattore è la capacità della nazione candidata di promettere vantaggi, favori e opportunità internazionale ai governi chiamati a regalargli il voto. Proprio questo avrebbe dovuto farci capire che la partita con i sauditi era persa in partenza. E che a ribaltarla non sarebbero bastati gli orrori di un regno oscurantista conosciuto per le decapitazioni in piazza, le condanne dei dissidenti e, non da ultimo, l’orrore dell’eliminazione di Jamal Khashoggi, l’oppositore ucciso e fatto a pezzi all’interno del consolato saudita di Istanbul.
Ma a far scordare ai 165 delegati del «Bureau International des Expositions» le atrocità del delitto Khashoggi e le innumerevoli violazioni dei diritti umani perpetrate a Riad e dintorni non sono stati soltanto i video in cui Cristiano Ronaldo, comprato con un ingaggio da 200 milioni di dollari, decanta le lodi dell’infausto reame E neppure la sontuosa festa alle porte della capitale francese in cui il 9 novembre i delegati africani, accolti dal calciatore Didier Drogba, hanno gozzovigliato con caviale a volontà e code di aragoste blu.
Dietro alle esibizioni, ai banchetti pantagruelici e ai 7 miliardi e 300 milioni di dollari messi a disposizione dell’Expo 2030 si muovono impegni e promesse capaci di cambiare l’ordine internazionale, mutare le sorti dei conflitti Mediorientali e alterare gli attuali equilibri economici ed energetici. Promesse e impegni assolutamente fuori misura per l’Italia, le sue finanze e le sue politiche internazionali. Per capirlo basta il 2030, ovvero la data che sottolinea la coincidenza tra l’Expo e Vision 2030, il progetto su cui il visionario e spregiudicato principe ereditario Mohammed Bin Salman punta per cambiare il volto del suo paese e quello del mondo circostante.
Nei progetti di Mbs, le iniziali che identificano il sovrano, i 3.200 miliardi di investimenti spesi entro quella data segneranno la trasformazione dell’arida e inospitale Arabia Saudita in un’immensa Dubai. Lì le energie verdi affiancheranno il petrolio dando vita a mega progetti come Neom Line, una città lineare larga 200 metri, ma estesa per 170 chilometri lungo le coste del Mar Rosso e capace di accogliere 9 milioni di abitanti.
Dietro tutto questo si cela però il nuovo ruolo geo-politico acquisito dall’Arabia di Mbs. Joe Biden, deciso inizialmente a marginalizzare un sovrano considerato ormai un «impresentabile ex- alleato» è dovuto correre ad incontrarlo non appena ha scoperto gli accordi tra Riad e Mosca per far salire il prezzo del petrolio e garantire alla Russia di neutralizzare le sanzioni e il «price cap» decisi dal G7.
Ma non solo. La decisione saudita di entrare nei Brics allineando un prodotto interno lordo da oltre 1.000 miliardi a quelli di Russia, Cina, India, Brasile e Sud Africa rappresenta un’evidente minaccia per le economie americane ed europee. Una minaccia che regala a Mbs il favore di un sud del mondo sempre più allergico all’ordine di Washington. Eppure Riad resta essenziale per garantire la contrapposizione ad un Iran pronto, altrimenti, a farsi potenza regionale e decidere i destini del Medioriente. Una prospettiva illustrata dai massacri del 7 ottobre con cui l’ala militare di Hamas ha impedito, con la benedizione e i ringraziamenti di Teheran, la prevista normalizzazione dei rapporti tra Arabia e Israele.
E nonostante Mbs sia un giocatore ambiguo e spregiudicato – capace come presidente turco Erdogan di giocare a poker sui tavoli di Stati Uniti, Cina e Russia – resta cruciale e significativo il freno imposto a quel clero wahabita che aveva trasformato il regno nella piattaforma ideologica e finanziaria del terrore jihadista. Dopo aver ispirato e manovrato prima Osama Bin Laden e poi il califfo dell’Isis Abu Bakr Al Baghdadi, il clero saudita sembra oggi rassegnato a subire il pugno duro di Mbs. E ad accettare le «libertà» di donne decise a guidare l’auto e a muoversi senza accompagnatori maschili.
Sul fronte economico e finanziario difficile, invece, non far i conti con il surplus economico generato dalla leva dei 3.200 miliardi di investimenti indispensabili a garantire la realizzazione dei progetti legati Vision 2030. Progetti pronti a venir esibiti sulla scena internazionale proprio grazie al palcoscenico dell’Expo. Un palcoscenico che Roma e l’Italia non solo non potevano permettersi, ma da cui ben difficilmente avremmo potuto promettere altrettanti scossoni all’ordine internazionale.