“È difficile accettare un figlio assassino. Vanno capiti i fatti”

"È difficile accettare un figlio assassino. Vanno capiti i fatti"

«Guarda che ti faccio fare la fine di quella là». E giù botte. Quella là è Giulia Cecchettin e non sono pochi i casi in cui, nei giorni scorsi, la sua tragedia è stata citata, totalmente a sproposito, da uomini che hanno aggredito le compagne. O che le hanno minacciate. Tentare di capire come sia possibile emulare, anche solo a parole, Filippo Turetta fa venire i brividi ma tant’è se è vero che sui social è spuntato anche un gruppo di suoi sostenitori.

Per scoprire cosa si celi dietro l’emulazione, l’«idolatria» o chissà cos’altro ci affidiamo allo psichiatra Giancarlo Cerveri, direttore del dipartimento di Salute mentale e dipendenze dell’ospedale della provincia di Lodi e autore del libro «Non ti fissare» (Feltrinelli).

Cerveri, come è possibile identificarsi a tal punto in una storia da emularla o chiamarne in causa la vittima in questo modo?

«Non la chiamerei nemmeno emulazione. È piuttosto una minaccia, siamo nel registro verbale della violenza. Citare la tragedia di Giulia fa sentire il maschio legittimato, in diritto di minacciare».

Ha detto maschio, non uomo.

«Si maschio. Proprio nell’accezione più predatoria del termine, più rabbiosa».

Rabbia, violenza, possesso cieco. Crede che i genitori di Filippo Turetta non siano pronti ad andare a trovarlo in carcere proprio perché non avrebbero mai pensato il figlio capace di tanto?

«Il perdono è un percorso, spesso molto lungo, e fatto di tante fasi. Ora siamo nella fase in cui bisogna ancora capire cosa sia successo, come. Lo è tutta Italia, figuriamoci i genitori dell’assassino. Per loro Filippo è il figlio, non l’assassino. Prima bisogna dare un nome alle cose, raccontare come è avvenuto l’omicidio. E soprattutto rendersi conto che, come sembra, è l’ultimo atto di una serie di minacce e di stalking. Poi arriverà il resto».

Il caso di Giulia sembra aver scoperchiato il vaso di Pandora. Crede sia possibile una svolta culturale?

«Sì, purché gli interventi per aiutare le donne che lanciano l’allarme violenza siano veloci e ben strutturati. Tante donne hanno paura di denunciare proprio perchè temono ritorsioni, quindi è fondamentale proteggerle realmente, anche quando chi le minaccia ha un ordine di allontanamento. Negli Stati Uniti su questo tema c’è molta sensibilità già da anni, è ora che si organizzi un sistema di protezione anche in Italia».

Quello dei femminicidi è un allarme sociale?

«Sì. Ed è solo la punta dell’iceberg di un problema molto più diffuso: le coppie violente, quelle in cui regna la paura. Il femminicidio è l’atto ultimo di una serie di botte, minacce, pressioni. Le case in cui non si arriva all’omicidio ma ci sono estremi per una denuncia sono moltissime.

Ho conosciuto donne che avevano il terrore di addormentarsi nel letto ma erano costrette a stare nella stessa casa con il marito, altre che per sofferenza hanno sviluppato malattie mentali, altre che si sono rifugiate nell’alcol e ne sono diventate dipendenti».

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