“Noi colpiti e minacciati perché aiutiamo le madri”

"Noi colpiti e minacciati perché aiutiamo le madri"

A chi fa paura difendere la vita? Toni Brandi scuote la testa: «Questo rancore irrazionale, quest’odio è l’espressione di una società umana che ha perso la fede». Il presidente di Pro Vita & Famiglia al Giornale commenta con amarezza l’ennesimo attacco subito dalla sua associazione l’altro giorno, a margine della protesta contro la violenza sule donne. Sulle circa 200 militanti di Non una di meno indaga la Digos.

Bottiglie, pietre e fumogeni. Serrande divelte, vetri spaccati con spranghe, telecamere abbattute e diversi tentativi di incendiare la sede, per fortuna vuota. Morite, scegliamo aborto libero. Bruciamo i pro vita, gli slogan che campeggiano contro chi ha una colpa gravissima, in questi tempi oscuri: la tutela della vita dal concepimento alla morte naturale, contro la deriva eutanasica e l’aborto, la carriera alias nelle scuole, l’offensiva gender che mina l’equilibrio dei bambini, la pillola abortiva Ru486 fuori dagli ospedali, la deriva Lgbtq+ contenuta nel ddl Zan, l’utero in affitto. La violenza è la risposta più debole di fronte a una serie di messaggi che lasciano il segno. «Siamo impegnati da anni nell’aiutare mamme in gravidanze difficili con passeggini, ovetti, carrozzine, biberon, pannolini e ciucci», sottolinea Brandi mentre si trova poco lontano dalla sede dell’associazione in viale Alessandro Manzoni 28 mentre è in corso la visita della delegazione di Fratelli d’Italia (Tommaso Foti, Lucio Malan, Augusta Montaruli, Maddalena Morgante e Elisabetta Lancellotta), ci mostra la foto della bomba molotov che per un miracolo non è scoppiata. Qualcuna l’ha infilata da un vetro rotto nella parte superiore della saracinesca d’ingresso. La polizia scientifica e gli artificieri hanno messo in sicurezza l’ordigno e lo hanno sequestrato. Fdi ha presentato un’interpellanza urgente al Viminale, prima che ci scappi il morto. Perché accanirsi contro chi difende la vita? Nell’ultimo anno manifestazioni e atti vandalici, con una pericolosa escalation: il murales del feto imbrattato il 14 novembre, le scritte inneggianti all’aborto e alla Palestina il 18 ottobre, le minacce vergate sui muri dopo il Roma Pride di metà giugno scorso, quando solo la presenza di una camionetta della polizia ha evitato il peggio. «Eccolo, il vero volto del transfemminismo: un movimento aggressivo, violento, pericoloso e ideologico che non tollera chi la pensa diversamente da loro – è il ragionamento di Jacopo Coghe, portavoce del movimento- eppure pretende di entrare nelle scuole per promuovere educazione al rispetto contro la violenza, il bullismo, educazione all’affettività». Il silenzio della sinistra fa male come una pietra. Eddy Schlein, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri, tutti muti di fronte a questa violenza. A loro si è rivolta il premier Giorgia Meloni («la violenza va condannata sempre o solamente quando si rivolge a qualcuno di cui condividiamo le idee?) con un post su Facebook. Da Pd e M5s arrivano timide condanne condite dai solito distinguo, ma tant’è. «Se pensano di poterci intimidire con la loro brutale violenza, si sbagliano», sospira Coghe.

Anche la Festa della donna è una giornata da bollino rosso. I loro manifesti contro l’aborto sono stati oscurati o rimossi, quelli che hanno passato le forche caudine del politicamente corretto hanno fatto una fine peggiore. Nel 2021 quelli che raffiguravano Maria Rachele Ruiu, sono stati oscenamente imbrattati. Il suo messaggio («chi sceglie la vita vince sempre») storpiato, il suo volto vandalizzato.

Lei, un seggio sfiorato con Fdi per un’alchimia elettorale, si sentì vittima di shitstorm (tempesta di letame, ndr) perché costretta a sponsorizzare un messaggio che combatteva. È il frutto amaro di una degenerazione dell’universo femminile, schiacciato tra lo stereotipo sessuale e l’essere l’incubatrice di figli altrui. C’è chi si batte perché nessuna veda nella libertà di abortire l’unico approdo o sia vittima del mercato di bimbi mascherato da altruismo. Non una di più.

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