Quel diamante “maledetto” e la leggenda nera dietro “Hope”

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Può un gioiello influire sulla sorte di un essere umano? Per secoli molti hanno creduto che il diamante Hope”, splendido gioiello da 112 carati, fosse la vera causa delle sciagure che sarebbero capitate a tutti i suoi proprietari, tra cui Re e Regine. Sebbene il suo nome significhi “speranza”, possederlo non avrebbe portato altro che sfortuna e sventure. Ma come può un semplice oggetto, seppur di enorme valore, avere quasi potere di vita e di morte sulle persone? Come è nata questa leggenda nera e cosa c’è di vero?

L’origine della maledizione

Ricostruire la storia del diamante “Hope” è un’impresa tutt’altro che facile. Tra i capitoli più oscuri vi sarebbe proprio quello dell’origine. Nel Cinquecento (forse il 1515, ma l’anno rimane incerto) il gioiello, di colore blu e dai riflessi viola, sarebbe stato trovato nella miniera Kollur di Golconda, in India, (da cui dovrebbe provenire anche un altro celebre diamante, il Koh-I-Noor, proprietà della Corona britannica e ancora oggi al centro di dispute). Sarebbe stato incastonato nell’occhio di una statua della divinità induista Rama-Sitra, che doveva presumibilmente trovarsi in un tempio di cui, però, non vengono specificati né il nome, né l’ubicazione.

Un giorno (impossibile essere più precisi, del resto le leggende hanno poco a che vedere con le ricostruzioni cronologiche) un sacerdote avrebbe rubato il diamante dall’occhio della statua, scatenando la furia di Rama-Sitra, che avrebbe maledetto la gemma e tutti i suoi futuri proprietari. Nel 1688 la pietra arrivò nelle mani del mercante francese Jean-Baptiste Tavernier (1605-1689): qualcuno sostiene che l’uomo l’avrebbe comprata, magari del tutto ignaro delle sue origini, qualcun altro azzarda l’ipotesi secondo la quale sarebbe stato proprio Tavernier a sottrarla dal tempio induista.

In ogni caso, e qui la storia diventa un po’ più lineare e precisa, Tavernier rivendette il diamante a Luigi XIV (1638-1715), ricavandone un’ingente fortuna. La felicità e la ricchezza, però, sarebbero durate poco. Il figlio del mercante avrebbe perso tutto il patrimonio al gioco. Nel tentativo di recuperare i suoi beni vendendo altre pietre a re e principi europei, Tavernier intraprese un nuovo viaggio verso l’India, ma non riuscì a portarlo a termine e morì a Mosca nel luglio 1689, all’età di 84 anni.

“Blu di Francia”

Luigi XIV, nuovo proprietario, diede ordine di far tagliare la pietra per incastonarla in una collana d’oro che indossò in tutte le cerimonie più importanti del suo regno. Dopo due anni di lavoro il diamante venne ridotto da 112 carati a 67,5 e assunse il primo nome con cui viene ancora oggi ricordato, cioè Blu di Francia”. La “sfortuna”, però, si sarebbe abbattuta anche sul sovrano: tutti i suoi eredi legittimi morirono prematuramente, a cominciare dal Delfino, colpito dal vaiolo. Infine anche il Re passò a miglior vita per una cancrena derivata dalla gotta.

Avrebbe indossato la gemma anche l’amante di Luigi XIV, Madame de Montespan (1640-1707), che perse il favore del Re dopo l’Affare dei Veleni, una vicenda di avvelenamenti e messe nere che travolse la corte francese. A ereditare il diamante fu Luigi XV (1710-1774), che all’età di 18 anni, nel 1728, si ammalò di varicella. I medici, però, la scambiarono per vaiolo, così il monarca non si sottopose al procedimento di variolizzazione. Purtroppo nel 1774 il Re contrasse davvero il vaiolo e morì il 10 maggio di quell’anno, a soli 64 anni. Il gioiello sarebbe stato donato alla regina Maria Antonietta di Francia (1755-1793) e tutti conosciamo la sua tragica sorte: la decapitazione, per mano dei rivoluzionari, il 16 ottobre 1793, nove mesi dopo l’esecuzione del marito, Luigi XVI.

Prima della Rivoluzione Maria Antonietta avrebbe prestato temporaneamente il diamante a una delle sue più care amiche, Maria Teresa Luisa di Savoia Carignano (1749-1792). Forse questo nome non dirà molto, ma il titolo nobiliare dovrebbe risvegliare la memoria storica: principessa di Lamballe. Impossibile dimenticare la sua terribile fine: torturata e decapitata dai ribelli, i quali, come ultimo sfregio al suo corpo, issarono la testa su una picca e la portarono, in macabra processione, verso la Torre del Tempio, per mostrarla alla sovrana prigioniera. La sovrana non vide le spoglie straziate dell’amica, ma svenne quando le riferirono l’accaduto.

Il diamante “Hope”

Dopo la rivoluzione del diamante si persero le tracce. Sarebbe stato rubato nel 1792 e poi sarebbe riapparso a Londra circa 20 anni dopo, tagliato in una gemma un po’ più piccola, quella che conosciamo ancora oggi. Impossibile sapere cosa accadde in quell’arco di tempo. Secondo alcune fonti lo avrebbe acquistato la zarina Caterina II di Russia (1729-1796), morta per emorragia cerebrale a seguito di un colpo apoplettico. Un’altra versione dei fatti vuole il gioiello nei forzieri reali di Giorgio IV d’Inghilterra (1762-1830), cioè il figlio della regina Carlotta e di Giorgio III, malato di tumore e deceduto per un’emorragia intestinale.

Alla fine degli anni Venti dell’Ottocento il diamante, ormai di 45,5 carati, prese il nome del suo nuovo proprietario, il banchiere Henry Philip Hope (1774-1839). L’uomo si separò dalla moglie, ma la pietra rimase nelle mani della sua famiglia, finché il nipote, Lord Francis Hope, non si trovò costretto a disfarsene. Francis, abituato a vivere al di sopra delle sue possibilità, pieno di debiti e abbandonato dalla moglie (morta in povertà), era vincolato per testamento a non poter cedere la pietra. Così intraprese una lunga e aspra battaglia legale e solo nel 1901 riuscì a venderla al mercante di diamanti inglese Adolf Weil. Questi trovò un altro acquirente, Joseph Frankel della Sons & Co., che sarebbe rimasto in possesso del diamante fino al 1907.

L’ultimo atto del diamante Hope

Secondo alcune ricostruzioni la gemma sarebbe finita nelle mani del francese Jacques Colot, che sarebbe impazzito e si sarebbe suicidato dopo aver venduto la pietra al principe russo Kanitowskij. Quest’ultimo lo avrebbe regalato alla sua amante, una ballerina. La giovane sarebbe stata uccisa, in un raptus di gelosia, proprio da Kanitowskij, a sua volta giustiziato dai rivoluzionari russi. Il proprietario successivo, il gioielliere greco Simon Matharides, sarebbe morto precipitando in un burrone prima ancora di avere la pietra tra le sue mani.

Nel 1908 il collezionista turco Selim Habib comprò il diamante Hope per conto del sultano Abdul Hamid II (1842-1918): l’emissario Selim avrebbe avuto dei grossi guai finanziari, mentre il sultano venne deposto nel 1909, dopo la Rivoluzione dei Giovani Turchi (luglio 1908). “Hope” venne comprato dal celebre Pierre Cartier, che nel 1911 lo rivendette a Evalyn Walsh (1886-1947), moglie di Edward Beale McLean (1889-1941), ricchi proprietari del Washington Post. Poco tempo dopo una serie di morti devastò la famiglia: la suocera di Evalyn, il figlio di nove anni investito da un’auto, la figlia di 24 anni per una overdose di sonniferi e due cameriere. La coppia divorziò, i McLean finirono in bancarotta ed Edward morì povero e alcolizzato.

I due discendenti rimasti non poterono fare altro che vendere la gemma per tentare di risollevare le sorti finanziarie della famiglia. L’ultimo acquirente fu il gioielliere newyorkese Harry Winston (1896-1978), che donò il diamante Hope allo Smithsonian Institution di Washington, dove si trova ancora oggi. La pietra arrivò nel museo il 10 novembre 1958.

Una pietra maledetta?

Abbiamo visto una carrellata di eventi, per lo più nefasti, che quasi farebbe credere alla leggenda della maledizione. Quasi, appunto. Basta solo fermarsi a riflettere qualche secondo in più per capire che si tratta di una semplice superstizione. Di un’interpretazione dei fatti, errata, che noi abbiamo voluto dare a eventi che nulla hanno a che vedere con il diamante “Hope”. La leggenda potrebbe essere nata per dare un senso, diciamo così, a lutti e disgrazie terribili, che è difficile accettare ed elaborare. Qualcuno ipotizza addirittura che sarebbe stato Cartier a inventare la storia della sfortuna per ammantare il gioiello di un’aura di mistero. Provarlo, ormai, è impossibile.

In ogni caso un elemento può aiutarci a capire che non esiste alcuna maledizione: l’incertezza sulla ricostruzione degli avvenimenti. La storia è “fumosa” in diversi punti, sia per quel che riguarda le date, sia per quel che concerne fatti e personaggi. Questo non fa che aumentare la confusione, mantenendo le vicende in equilibrio precario tra storia e leggenda. In realtà, a ben guardare, in tutte quelle sventure noi non abbiamo visto altro che la normalità e l’ineluttabilità della vita e della morte, della gioia e del dolore. Anzi, spesso siamo noi gli artefici del bene e del male nelle nostre vite.

Tutti dobbiamo morire e possiamo ammalarci (Tavernier morì a 84 anni, età ragguardevole per l’epoca, Luigi XIV è morto di malattia a più di venti anni di distanza dall’acquisto della gemma, Luigi XV dopo decenni dal momento in cui l’aveva ereditata, dunque quale sarebbe la maledizione?), o avere problemi economici, ma possiamo anche costruirci da soli un destino nefasto (come il figlio di Tavernier che perde il patrimonio di famiglia al gioco, o il principe Kanitovskij che uccide la sua amante). Questo dovrebbe far capire che spesso siamo noi ad avere il potere sul nostro futuro e sulle nostre scelte. Non certo un oggetto, per quanto splendido e dalle origini oscure.

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