Adesso si capisce perché i Giochi invernali Milano-Cortina 2026 avranno uno dei loghi più antiestetici della storia delle Olimpiadi: perché anche il concorso che doveva scegliere il simbolo è stato truccato, in modo tale da far vincere il progetto designato dai vertici della Fondazione organizzatrice.
Il minore dei mali, in fondo. Perché insieme al sondaggio per il logo sarebbero state truccate gare d’appalto e assunzioni, facendo della macchina organizzatrice dell’evento un luogo di malaffare in cui ieri mattina fa irruzione la Guardia di finanza. A guidare l’operazione delle Fiamme gialle è personalmente il procuratore aggiunto della Repubblica Tiziana Siciliano, che finisce così a scambiarsi qualche battuta con Giovanni Malagò, presidente del Coni e nume tutelare dei Giochi, comprensibilmente turbato dal disastro che avviene in diretta. Corruzione e turbativa d’asta: queste sono le accuse che scattano contro l’ex amministratore delegato della Fondazione, il manager genovese Vincenzo Novari, designato nel 2019 dal ministro grillino dello Sport Vincenzo Spadafora, contro il direttore dei servizi digitali Massimiliano Zuco e l’imprenditore Luca Tomassini.
Al centro dell’indagine le gare d’appalto per la digitalizzazione dell’evento, un business da quasi due milioni assegnato alla Vetrya, l’azienda di Tomassini, nonostante la stessa fosse in condizioni talmente precarie da finire poi in concordato preventivo. E nonostante Tomassini e Novari fossero soci in affari: nel 2018 Vetrya compra una quota di Bizboost, una società controllata dalla Nhc. Che sta per Novari Holding and Consulting, l’azienda creata da Novari dopo il suo addio al colosso della telefonia H3G.
Dal decreto di perquisizione eseguito ieri nella sede della Fondazione emerge che la genesi della operazione è chiara, e sarebbe strettamente legata alla assunzione di Zuco: «Tomassini faceva riferimento ai propri pregressi rapporti con Novari inviando lo screen shot di una conversazione col medesimo a Zuco, a favore del quale Tomassini già riferiva di essere intervenuto al fine di consentirne l’effettivo inserimento lavorativo».
L’assunzione a «digital director» e «cto» della Fondazione avviene, secondo l’accusa, «con un compenso complessivo di 857.732» in due anni, e con assegnazione di auto Smart pagata direttamente da Tomassini tramite Vetrya «per le cortesie fatte ultimamente».
Quando nel novembre 2021 la Vetrya finisce in concordato preventivo, Tomassini crea un’altra azienda, la Quibyt, che continua come nulla fosse a lavorare per la Fondazione. In contemporanea con gli appalti ottenuti, una mail interna a Vetrya recita testualmente: «Entro domani sera cerchiamo di avere un importo da trasferire a Zuco». Un pasticcio, insomma, che – secondo la Procura – nasce dalla gestione della Fondazione come una struttura privata, con assunzioni ad personam e appalti sbrigativi. E questo nonostante il soggetto, cioè la Fondazione, secondo gli inquirenti che citano la giurisprudenza della corte di Legittimità e della Corte di giustizia Ue, possieda «tutte le caratteristiche per essere annoverato nella categoria dell’organismo di diritto pubblico» e i titolari di cariche amministrative finiscono per assumere la «qualifica di pubblico ufficiale». Da qui l’accusa di corruzione.
L’inchiesta nasce da una vecchia indagine su Vetrya, in cui emergono alcune «conversazioni whatsapp» in cui – notano i pm – il «linguaggio degli interlocutori è esplicito». E sarebbero almeno tre gli affidamenti a Vetrya (successivamente gestiti da Quibyt) di servizi relativi al cosiddetto ecosistema digitale in cui la Finanza segnala «profili di criticità», tra marzo 2020 e gennaio 2021. E questo con Zuco «sempre attivo in interlocuzioni con Tomassini, in palese violazione degli elementari criteri di trasparenza ed imparzialità nella aggiudicazione di gare pubbliche».
Di fatto, l’inchiesta sulle Olimpiadi segna un nuovo passo avanti nello scontro aperto tra la magistratura e la politica milanese e lombarda, che si vede presa di mira – dopo le indagini sulla gestione dell’Urbanistica e le sue licenze edilizie «facili» – in un evento simbolico, su cui Milano si sta giocando una parte importante della sua immagine internazionale. Per il sindaco Beppe Sala, d’altronde, si tratta di un deja vu, visto che anche Expo 2015, la sua prima creatura, finì nel mirino delle indagini.
Allora la Procura ebbe il garbo di attendere la fine dell’esposizione universale, stavolta ha ritenuto doveroso giocare d’anticipo.