Vicino alla sede di Fratelli d’Italia in via della Scrofa incontri Mario Segni, uno dei primi sostenitori della Repubblica presidenziale e vincitore di un referendum che portò al superamento della Prima Repubblica. Anche lui è scettico sulla possibilità che il premierato diventi realtà. «Io sono d’accordo – osserva – ma c’è il rischio che si perda un’occasione storica. Vorrei parlare con la Meloni ma non ci riesco. Sicuramente chi è contro farà una battaglia ideologica. Hanno messo in mezzo pure il 2 giugno, la festa della Repubblica, dimenticando che i primi ad essere per la Repubblica furono i fascisti. Se la Meloni avesse proposto il presidenzialismo, avrebbe avuto meno problemi».
Mario Segni è uno dei pochi che abbia vinto un referendum e conosce i segreti di una simile sfida. Una sfida non facile. Siamo ancora ai prolegomeni e già lo schieramento avverso si sta radunando. Due senatrici a vita Liliana Segre e Elena Cattaneo, entrambe di nomina mattarelliana, dicono peste e corna della Riforma e mentre la premier tiene il punto c’è chi tira fuori argomenti imprevisti per attaccare l’elezione diretta del capo del governo. «Lo scandalo ligure – spiega Debora Seracchiani del Pd – dimostra che bisogna pensarci bene perché le regioni hanno un sistema istituzionale simile al premierato».
Insomma, lo scontro si preannuncia cruento. È nelle cose, al di là della volontà dei contendenti, che il referendum, se ci sarà, si trasformi nella madre di tutte le battaglie di questa legislatura. «Noi andiamo avanti – ragiona il capo dei deputati di Fdi, Tommaso Foti – perché la sinistra non vuole un accordo. Hanno capito che dire di no al premierato è l’unico collante che hanno per mettersi insieme. Certo che se avessimo voluto metterli in difficoltà avremmo presentato la proposta di Cesare Salvi (all’epoca capogruppo degli ex comunisti) in bicamerale ma quella non prevedeva l’elezione diretta. L’assurdo è che in un paese in cui sindaci e governatori sono eletti direttamente il Premier non abbia un’investitura popolare».
Ma la partita è rischiosa. La Meloni è stata avveduta a dire che non sarà un referendum su di lei. «Renzi – è la spiegazione del portavoce di Forza Italia, Raffaele Nevi – lo fece su di sé, la Meloni no. Tradotto: se perde non andrà a casa». Questa è la sua strategia, ma poi c’è la narrazione degli altri che punterà a trasformare il quesito in una sorta di «Giorgia sì o Giorgia no». «Se fossi in lei- è l’analisi sempre della Seracchiani – ci penserei due volte. Se perdi, perdi e nei sondaggi riservati sulle leadership dall’inizio del suo governo lei è passata dal 58 al 40% di gradimento». «Il premierato – gli fa eco un altro Pd, Matteo Orfini – servirà solo per i comizi elettorali poi quando dal voto europeo emergerà che i partiti contrari hanno la maggioranza, finirà su un binario morto».
Questi sono gli avversari, ma anche sul versante amico non mancano i dubbiosi. C’è chi nella Lega immagina che il referendum possa diventare uno strumento per ridimensionare la premier. «Il premierato? Andranno al referendum – è la risposta del salviniano Stefano Candiani – e la prenderanno in quel posto». Più articolata la tesi del forzista Giorgio Mulè: «Un treno lanciato a 200 all’ora, come la Meloni ha impostato la riforma, non lo fermi. Si arriva al referendum e si rischia la figuraccia. Poi lei non si dimetterà, figurarsi, non vuole neppure fare il rimpasto per non passare per Mattarella». In questa situazione è difficile immaginare anche un aiuto di chi all’opposizione non ha pregiudizi. «Così – è la sentenza del renziano Faraone – la riforma fa schifo. Se non cambia non la votiamo».
Ecco perché si moltiplicano quelli che predicano prudenza. C’è chi rilancia la proposta di mediazione dei vari Ceccanti, Calderisi, Quagliarello per non perdere «un’occasione storica». E chi, come Segni, propone di cambiare spartito.
«Dopo le europee – preannuncia Gianfranco Rotondi, ex dc eletto nelle file di Fdi – proporrò di tornare al presidenzialismo, o meglio, al semipresidenzialismo alla francese, voglio vedere come farà il pd a dire di no».