«Con l’aggravante di avere commesso i delitti al fine di occultare la più grave condotta di concorso nelle stragi ascrivibile a Silvio Berlusconi e allo stesso Dell’Utri per la quale Berlusconi è stato indagato sino al momento del suo decesso». É questo il passaggio chiave del documento con cui la procura della Repubblica di Firenze ha avvisato il 23 aprile Marcello Dell’Utri (nella foto) e sua moglie Miranda di avere concluso le indagini sui versamenti di denaro ricevuti da parte di Silvio Berlusconi nel corso degli anni. Aiuti alla luce del sole ad un amico in difficoltà, secondo quanto il Cavaliere ha sempre detto, e come ha confermato nel suo testamento; per la procura di Firenze, invece, i soldi sono il prezzo del silenzio di Dell’Utri nei processi che si trascinano da decenni sui rapporti tra Berlusconi e Cosa Nostra.
Ora Berlusconi non c’è più, ma Dell’Utri è vivo. E per i pm fiorentini Luca Turco e Luca Tescaroli portare l’ex senatore azzurro a processo è un modo per processare alla memoria anche il Cavaliere, la cui figura viene citata ripetutamente nell’avviso notificato ai coniugi Dell’Utri.
Alla base dell’indagine, c’è la norma che obbliga chi è stato condannato per reati di mafia a rendere noti allo Stato le variazioni del suo tenore di vita. Complessivamente, i due coniugi avrebbero omesso di comunicare variazioni per tredici milioni di euro. Il prezzo del silenzio, per l’appunto.
Alcuni dettagli vanno segnalati. Il primo, come dicono i legali dei Dell’Utri, Filippo Dinacci e Francesco Centonze, è che si tratta di «fatti notissimi che sono stati già oggetto dello scrutinio di svariate procure con esiti sempre ampiamente liberatori»: ma la puntigliosità dei pm fiorentini è tale che tra i soldi che Dell’Utri è accusato di avere taciuto non ci sono solo le somme ricevute da Berlusconi ma anche 15mila euro incassati dalla casa editrice del Fatto Quotidiano come risarcimento in una causa per diffamazione: un processo pubblico che era difficile tenere nascosto.
Il secondo elemento, più rilevante, è che alla base dell’accusa c’è un teorema giudiziario, la tesi della collusione tra Berlusconi, Dell’Utri e Cosa Nostra affossato da tutti i processi celebrati finora, compreso quello sulla presunta trattativa Stato Mafia. Sia a Palermo che a Firenze che a Milano (dove, in silenzio, era approdato uno scaglione della vicenda) le ipotesi d’accusa sono state archiviate con provvedimenti definitivi, a volte su richiesta degli stessi pm che le avevano proposte. Tanto che ora la procura di Firenze per tenere aperta la pista si appella all’indagine aperta da essa stessa due anni fa che indica l’ex premier e Dell’Utri come mandanti delle stragi del 1993: prova cruciale, per quanto se ne sa finora, il video in carcere del boss Giuseppe Graviano che fa un gesto a un altro detenuto: mimando, dicono i pm, un esplosione.
Il terzo inciampo, il più macroscopico, è che la stessa identica faccenda per cui oggi si vogliono processare i coniugi Dell’Utri è stata esaminata poche settimane fa da altri giudici, ovvero il tribunale di Palermo, sezione misure di prevenzione, che l’ha smontata da cima a fondo. Il provvedimento depositato il 13 marzo rifiuta la confisca dei milioni chiesta dalla Procura palermitana. Si legge che «non può presumersi la natura illecita di entrate comunque tracciate, e delle quali i protagonisti hanno fornito una spiegazione non smentita dalle evidenze». Viene definita «indimostrata l’esistenza di accordi tra il sodalizio criminale e Berlusconi sia in campo imprenditoriale che politico». I giudici palermitani liquidano come «congetture» le tesi dei pm e concludono: «il tenore complessivo delle conversazioni intercettate nel 2020 e 2021 non tradisce affatto una sottostante operazione estorsiva o illecita».
«L’ipotesi non ha mai condotto ad alcun risultato processuale attendibile»: ma a Firenze non mollano.